Avsnitt
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Nelle sue opere si è occupato dell'ontologia ermeneutica contemporanea, proponendone una propria interpretazione, che ha chiamato pensiero debole, in contrapposizione con le diverse forme di pensiero forte dell'Otto-Novecento: l'hegelismo con la sua dialettica, il marxismo, la fenomenologia, la psicanalisi, lo strutturalismo. Sembra ieri quando le studentesse accorrevano a Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche a Torino, per vedere il bel filosofo biondo che parlava di Nietzsche e Heidegger, per di più fresco di coming out, che in quegli Anni 70 non era ancora una moda ma un’uscita coraggiosa, e per tutta una fetta di mondo engagé un’ulteriore aura di fascinazione. Oggi Gianni abita in un grande appartamento di via Po affacciato sul Rettorato dell’Università dove ha insegnato fino al 2008, e dove ora è professore emerito. Ammette che ci ha provato gusto in certi casi a provocare e spiega: «Ma perché non dovrei divertirmi? Una volta un gruppo di madame torinesi mi aveva invitato a una conferenza sui giardini, e io ho concluso il mio intervento - dove si parlava di un giardino dei sentieri che si biforcano, una cosa un po’ borgesiana - cantando quella canzone di Brassens, “Je suis la mauvaise herbe, braves gens, braves gens…”. Sì, l’unica figura che mi piace oggi è la figura di uno che rompe le palle». E di Torino dice: «È una bellissima città, come diceva Nietzsche quando era già pazzo. Ma forse quando lo diceva non era poi così pazzo».
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Nacque a Torino il 14 marzo 1820, figlio di Carlo Alberto di Savoia-Carignano e Maria Teresa d’Asburgo. La vita di Vittorio Emanuele venne subito avvolta da un’aura di mistero, quando da bambino si salvò miracolosamente ad un incendio che scaturì nel palazzo Carignano, luogo in cui era nato e viveva. Il 16 settembre 1822, infatti, la nutrice che si occupava del futuro sovrano fece cadere una candela nella culla del piccolo Savoia incendiandola. La donna si provocò numerose ustioni sul corpo, ma riuscì a trarre in salvo indenne Vittorio Emanuele II. Almeno, questo è quanto documentato dalla versione ufficiale, visto che subito cominciò a circolare la “leggenda metropolitana” che il bambino fosse morto e subito sostituito con un pari età. Probabilmente il figlio di un macellaio fiorentino che da anni si era trasferito nel capoluogo subalpino. Leggenda, alimentata negli anni, dal fatto che Vittorio Emanuele non assomigliasse al padre Carlo Alberto. Non solo da un punto di vista somatico, ma anche caratteriale. Carlo Alberto, infatti, era un uomo alto, biondo e slanciato, mentre il figlio bruno e tarchiato. Altro tratto molto differente tra i 2 erano le mani. Quelle di Carlo Alberto erano snelle e piccole, quelle di Vittorio Emanuele molto grosse, come dicevano le malelingue proprio da macellaio!
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Saknas det avsnitt?
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Nacque il 14 marzo 1844 a Torino, da Vittorio Emanuele II, allora duca di Savoia ed erede al trono sardo, e da Maria Adelaide d'Austria. La sua nascita fu molto festeggiata dal popolo piemontese, nonché dalla famiglia reale, che così poté vedere assicurata la discendenza maschile. Egli trascorse tutta la sua infanzia nel castello di Moncalieri, dove ricevette una formazione essenzialmente militare; fu questa dura disciplina che ne formò il carattere. In quegli anni Umberto intrattenne una relazione sentimentale con la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini Litta, che durerà per tutta la vita. Umberto sapeva però che si sarebbe dovuto piegare a un matrimonio di convenienza. Fu scelta la principessa Margherita di Savoia. Umberto e Margherita si sposarono nel Duomo di san Giovanni a Torino il 22 aprile 1868; furono le "nozze del secolo" di allora, e per quell'occasione re Vittorio Emanuele II creò il corpo dei corazzieri reali, che dovevano fungere da scorta al corteo regale, e l'Ordine della Corona d'Italia, con cui venivano premiati tutti coloro che si erano distinti al servizio della Nazione. Alla morte del padre Vittorio Emanuele II, il 9 gennaio 1878, Umberto gli succedette col nome di Umberto I. Nello stesso giorno egli emanò un proclama alla Nazione in cui affermava: Il vostro primo re è morto; il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono!
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Ippopotami azzurri, uomini a forma di palla, poltrone rivestite di prosciutto: no, non è il mondo incantato di un bambino, è la realtà vista con gli occhi di Armando Testa, l’artista e pubblicitario torinese che ha plasmato il nostro immaginario collettivo attraverso figure e slogan divenuti iconici. “Sono nato povero, ma moderno”, così amava dire. E non era una semplice frase ad effetto. C'è ancora la guerra nel 1917, quando Armando Testa viene alla luce, e la vita non è facile per un ragazzino che a 11 anni perde il padre e a 14 finisce a lavorare in una tipografia. Ore ed ore passate ad impaginare libri d'arte indolenziscono le dita, ma spalancano i pensieri. Da quei libri sboccia una passione che non si estinguerà più. Il primo bozzetto risale al 1937, per una ditta di colori, ma bisogna attendere la fine di un'altra guerra per cominciare a fare sul serio. È il 1946 quando Armando a Torino crea la sua agenzia pubblicitaria, un marchio che tutt'oggi, a 25 anni dalla sua morte, è leader indiscusso del settore. Torino, città natale di Testa, ha dedicato all'artista nel 2001, al castello di Rivoli, una mostra commemorativa dal titolo Less is more, in onore al suo minimalismo.
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Cresciuto nella zona torinese di via Fréjus/Corso Peschiera, tra Borgo San Paolo e quartiere Cenisia, cominciò a suonare la chitarra a 13-14 anni, nella sala prove dell'oratorio della chiesa Gesù Adolescente, ma le vere prime esperienze musicali cominciarono l'anno dopo, nel 1967, come chitarrista della band del fratello maggiore Franco. Il padre era migrato a Torino dal Gargano e manteneva tre figli con lo stipendio da guardiano notturno. Racconta Umberto: “Tornava a casa mezzo congelato, qualche volta gli rubavano pure la bicicletta, si mangiava carne una volta alla settimana. Ma il lavoro c’era, si avvertiva un’idea di futuro”. Ma quali erano i locali che il giovane Tozzi frequentava negli anni Settanta? «Lo Swing Club di via Botero era il ritrovo di noi musicisti e aspiranti tali. C’era un’aria cosmopolita, anche perché spesso suonavano jazzisti americani. Alla fine si commentava il concerto durante la spaghettata delle due del mattino. Nel mio quartiere, Borgo San Paolo, c’era invece Cenisia con il Voom Voom, lì passavano le star a fare il classico concertino di tre quarti d’ora con le canzoni famose».
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Dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo salesiano Valsalice di Torino, si è laureato in Lettere Moderne con una tesi in Storia Contemporanea all'età di 32 anni, dopo esser già divenuto giornalista professionista. Ha cominciato la propria attività come giornalista freelance in piccole testate di area cattolica, come Il nostro tempo, dove lavorava all'epoca anche Mario Giordano. Nel 2017 un grande spavento per la figlia Elisa… Erano andati tutti a vedere Juventus-Real Madrid in piazza San Carlo, poi è successo qualcosa che ha scatenato il panico. E Travaglio analizza proprio gli effetti del panico sulla folla, le voci incontrollate che si sono diffuse nella piazza e hanno fatto perdere ai più il controllo della situazione, ma anche le responsabilità di chi ha consentito che decine di ambulanti potessero vendere la birra in bottiglie di vetro: "Tutto virtuale, tranne il sangue". Così ha raccontato dopo aver ricevuto la telefonata di Elisa: “Salto in macchina con mia moglie e voliamo a prenderla, appena in tempo prima che anche in piazza Vittorio Veneto si scateni il panico per l'ondata dei fuggitivi che, attraverso via Po e le strade laterali, sciamano via dal luogo della non-partita e del non-attentato. La carico in auto che trema ancora come una foglia e fatica a parlare. E mi fiondo al pronto soccorso più vicino”. Per fortuna niente di grave per la figlia.
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E’ nato nel 1906 in via dell’Ospedale, ora via Giolitti. Ha studiato al «Sociale», l’istituto dei Padri Gesuiti, in via Arcivescovado, ricevendone un’impronta indelebile. A loro lo riconduceva ogni meditazione sulla fede, che nelle stagioni risalterà come «nostalgia della fede». Ha i confini dei portici, la Torino di Mario Soldati, «il termine estremo di Torino borghese e ottocentesca» là dove si incontrano corso Vinzaglio e corso Vittorio. Il mondo di ieri che lì non si arenava, che si apriva alle nuove energie sociali, lasciandosi «abbracciare volentieri da Torino operaia» (il non lontano Borgo San Paolo), «sua gloria, sua ricchezza e sua difesa». Mario prediligeva «la quiete e la solitudine di certe vie, specialmente del Borgo Nuovo», amava pranzare al Cambio («Tutto oro specchi e vetri dipinti»), si smemorava davanti alla statua innevata di Gioberti in piazza Carignano. Soldati era l’anima più mozartiana, più versicolore di Torino, se nello stesso nome della città scorgerà, invisibile agli occhi comuni, ma non a «coloro che vi sono nati, o che vi sono vissuti a lungo, qualcosa di rosso che ride», così archiviando ogni grigia nomea.
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Nacque a Torino da Giovanni Saragat e da Ernestina Stratta. Il padre era un avvocato di Sanluri di ascendenze catalane che si era trasferito nella città sabauda nel 1882. Alla professione forense alternava quelle di poligrafo e di giornalista, scrivendo articoli di cronaca giudiziaria per la Gazzetta Piemontese. La madre era figlia di un rinomato pasticcere. Dopo aver frequentato la scuola elementare "Pacchiotti", entrò all'istituto "Sommeiller", uscendovi nel 1915 con il diploma in ragioneria. Nel 1916 fu richiamato alle armi e prese parte alla Grande Guerra. Congedato, il 17 luglio 1920 conseguì la laurea in Scienze economiche e commerciali. “In questa casa, il 19 settembre 1898, nacque Giuseppe Saragat – socialista riformista, con Turati e Matteotti, avversò il fascismo, prima in Italia e poi in esilio. Tornato in Italia nel 1943, fu incarcerato dai nazisti ed evase insieme a Sandro Pertini, per proseguire la lotta clandestina. Alla liberazione divenne Presidente dell’Assemblea Costituente, poi fu più volte Ministro, fino all’elezione a Presidente della Repubblica il 28 dicembre 1964. Mori a Roma l’11 giugno 1988. Dedicò la vita alla causa della libertà e del socialismo democratico”. Sarà questa l’epigrafe che verrà posta sulla facciata della casa in cui nacque Giuseppe Saragat, in via IV Marzo, 5. La targa commemorativa ricorderà il Capo dello Stato nel cinquantenario della elezione al Quirinale.
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Nata a Torino, da papà Giovanni, di origine siciliana, e da mamma Rosella, originaria di Taurianova, è altresì nipote (da parte di padre) dell'omonima annunciatrice e conduttrice attiva negli anni Cinquanta. Da bambina, crebbe nel quartiere Borgo San Paolo di Torino, in un caseggiato davanti al centro sportivo calcistico della Lancia (oggi chiamato "Robilant"); nella stessa città, studia fino alle scuole superiori, tuttavia già nel 1976 entra nello spettacolo, partecipando al concorso di bellezza Miss Muretto di Alassio, in Liguria, risultando vincitrice. L'anno dopo si divide tra Torino e Roma, dove inizia a fare dei provini. In un’intervista ha dichiarato: «Anche se ho vissuto un po’ ovunque in Italia non ho avuto dubbi nello scegliere Torino come luogo del cuore FAI, la città dove sono nata. Il Valentino, Superga, la Gran Madre, i luoghi che frequentavo con mio papà. Era figlio di uno dei più giovani piloti dell’aeronautica quindi mi ha sempre portato in giro. Mi portava e mi raccontava la storia dei luoghi che visitavamo. La Mole è quella che mi è rimasta di più nel cuore. Il mio papà mi ripeteva sempre: “Quando guardi qualcosa con il naso all’insù sei felice”».
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«La mia città è bellissima». È la dichiarazione d’amore di Samuel, voce e frontman dei Subsonica nonché giudice dell’edizione 2019 di X-Factor, alla sua Torino. Dove è nato nel 1972. E dove ha fondato, insieme agli amici Max Casacci e Boosta, il gruppo rock elettronico più famoso d’Italia. «La mia città ha sempre lottato per restare in vita e lo ha fatto con la forza delle sue idee», racconta tra una pausa e l’altra delle prove per il gran finale di X Factor 2019. «Torino è una città multietnica: qui abitano persone provenienti da tutte le regioni d’Italia e questa varietà porta sempre ricchezza». E se nel suo cuore non possono mancare luoghi iconici, come la Mole o i Murazzi, ce ne sono altri più intimi e particolari. Come il Cinema Massimo o Piazza Vittorio. «Ci sono ancora oggi dei locali che portano la musica in città, come Hiroshima Mon Amour, Giancarlo 2 (che oggi si chiama Magazzino Sul Po), Gli Amici del Po, OFF TOPIC in zona Gasometri tra Vanchiglia e Vanchiglietta, Cap 10100, anche questo molto bello, sul fiume. Sono posti che, ognuno a suo modo, combattono una guerra sotterranea e silenziosa contro l’avvento del “grande niente”, lottando per portare la musica di qualità in città».
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E’ stato un sensitivo nato a Torino nel 1903. Le sue dimostrazioni, avvenute in presenza di ospiti da lui selezionati, vennero interpretate dai suoi estimatori come autentici fenomeni paranormali ma da altri, come il prestigiatore Silvan e il giornalista scientifico Piero Angela, come illusioni prodotte con tecniche di prestidigitazione e in particolare di mentalismo. Dopo le prime esperienze lavorative in giro per il mondo per conto della Banca Commerciale Italiana, Rol tornò a Torino, dove decise di stabilirsi definitivamente nel 1931. Scelse una palazzina grigio chiaro in stile Liberty, nel quartiere di San Salvario, al civico 31 di via Silvio Pellico. Dal quarto piano del suo elegante appartamento con vista sul parco del Valentino, Rol osservava il mondo con discrezione, dietro le tende di raso, ma non si lasciava osservare. Di ordinario non c’era nulla nella sua vita. Nemmeno la sua abitazione lo era. Chi ha avuto la fortuna di varcare la soglia di quella casa piena di misteri la descrive come ricca di mobili antichi, con pregiati pezzi di antiquariato e cimeli napoleonici, oltre a una serie di quadri da lui stesso dipinti. Nel suo bellissimo salotto rivestito in lino, Rol era solito accogliere gli ospiti attorno a un grosso tavolo ovale. Tuttavia, la stanza più suggestiva era sicuramente la “sala degli specchi”, descritta anche nei romanzi dei tanti scrittori che sono passati di là.
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Nata a Torino il 24 aprile 1971, si trasferisce a Roma per frequentare i corsi di recitazione di Beatrice Bracco e successivamente il Centro sperimentale di cinematografia. In seguito va a New York e frequenta l'Actors Studio. Nel 1994 debutta nel cinema con il cortometraggio Effetto, seguito nel 1995 da Palermo Milano - Solo andata. Il successo arriva con la parte di Naima, l'esperta di hardware di Nirvana, il film di Gabriele Salvatores. Nel 2019 come madrina del gLocal Festival al Cinema Massimo di Torino ha dichiarato: «La cadenza torinese è noiosa? Ma che importa: ha quel suono lì e noi raccontiamolo!». Nel senso più cinematografico che si possa materializzare: «Possibile che non ci siano storie di donne della città da narrare? Io vorrei girare qui e interpretare un ruolo femminile local». Un «uno-due» di Stefania Rocca in velocità: intanto, se c’è qualche regista interessato a una sceneggiatura con location Torino e ruolo su misura per lei, batta un colpo. Ha poi proseguito: «Finalmente la mia città mi chiama e ne sono felice. Vivo a Milano, è lì che ho la famiglia, ma torno spesso qui, ho la mamma che non se ne andrebbe mai. E ho tanti amici, quelli dell’infanzia; con la mia amica Simona ci conosciamo dall’asilo».
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Figlio di Armando, un operaio di Fiat Mirafiori, e di Maria Angelica, ha conseguito il diploma di perito capotecnico in elettronica industriale presso l'Istituto Tecnico Industriale Giuseppe Peano di Torino. Nel 1981 si è tesserato al Partito Comunista Italiano, seppur rimanendo critico verso i "cedimenti ideologici ed anche concreti della linea del PCI". Iniziò poco dopo a svolgere attività presso il centro culturale marxista "Mondo Nuovo" di Torino, luogo di riunioni e seminari politici e culturali che riuniva membri del Partito Comunista Italiano, di Democrazia Proletaria ed altri esponenti provenienti dall'estrema sinistra. È stato componente della Direzione Provinciale del Partito Comunista Italiano di Torino dal 1986 al 1991; inoltre è stato consigliere provinciale di Torino nel quadriennio 1991/1995. Si è laureato da studente-lavoratore in Scienze politiche presso l'Università di Torino nel 1988 con tesi sull'innovazione tecnologica in FIAT. Ha lavorato come magazziniere e giornalista pubblicista. Diviene poi docente presso il Centro Orientamento Scolastico professionale di Torino, rimanendovi sino al 1994. Dal 2009 è segretario generale del Partito Comunista.
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Nacque da una famiglia di origini biellesi. Frequentò il Liceo Cavour a Torino, la sua città natale; in seguito studiò lingue e giocò a calcio in Francia, Svizzera ed Inghilterra. Appassionato di calcio e tifoso del Torinese, a solo undici anni con alcuni amici vendette alcuni libri di latino per vedere la prima partita di calcio giocata in Italia, Genoa-Rappresentanza Torino, che si svolse il giorno dell'Epifania del 1898 a Genova e venne vinta dalla squadra torinese. Da calciatore militò nella squadra riserve elvetica dei Grasshoppers, che lasciò per tornare nella sua Torino, dove contribuì a fondare il Torino Football Club, squadra nella quale militò per cinque stagioni, sino al ritiro dall'attività agonistica, nel 1911, e di cui fu direttore tecnico dal 1912 al 1922. Terminati gli studi, entrò alla Pirelli, dove divenne dirigente, incarico che lascerà per assumere quello di commissario unico della nazionale italiana, accettandolo con l'unica e singolare condizione di non essere retribuito. Pozzo fu un protagonista assoluto di tutti gli eventi calcistici che si susseguirono nella prima metà del Novecento, e accompagnò questa attività con la meticolosa raccolta di una imponente mole di documentazione. Un archivio quantitativamente straripante, ora versato dai suoi eredi all’Archivio di Stato di Torino e in larga parte già inventariato. Un insieme di documenti in grado oggi di restituirci pagine molto importanti della nostra storia, non solo calcistica.
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Nato a Farina (Torino) l'8 settembre 1926, è stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il 23 settembre 2005. Sergio si è laureato in Ingegneria Meccanica, conseguita nel 1959 al Politecnico di Torino. L'azienda Pininfarina diviene famosa negli anni Cinquanta per l'eleganza delle carrozzerie realizzate e, soprattutto, per uno stile sempre all'avanguardia che ha garantito così un successo internazionale del "marchio" ancora oggi riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo. A partire dagli anni Ottanta Pininfarina intuisce l'importanza dell'aerodinamica dei suoi modelli e concentra tutti i suoi sforzi nel migliorare i modelli non solo da un punto di vista estetico ma soprattutto aerodinamico. Dalla Cisitalia del 1947 alla 2uettottanta del 2010, passando attraverso la Flaminia Presidenziale: queste alcune delle pietre miliari del design Pininfarina, molte delle quali sono esposte nel nuovo Museo Nazionale dell'Automobile di Torino. Tra queste la Cisitalia 202. La "scultura in movimento", secondo la definizione di Arthur Drexler, può di nuovo essere ammirata dal pubblico, dopo un accurato restauro conservativo ultimato nel 2009 nella sede Pininfarina di Cambiano.
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E’ nato a Torino il 28 agosto 1985: sua madre è biellese, mentre suo padre è torinese, o meglio di Barriera di Milano, come ci tiene a precisare il figlio. Il suo vero nome e cognome è Guglielmo Bruno: Willie deriva quindi da William, l'equivalente inglese di Guglielmo, mentre Peyote è una citazione della pianta allucinogena. Naturalmente, l'assonanza tra Willie Peyote e il cartone animato Wile E. Coyote è voluta. Il legame tra il rapper e la sua città è molto forte. Willie è tifoso del Toro, passione cui accenna anche nelle sue canzoni, e non mancano i riferimenti a Torino nei suoi pezzi e nei titoli dei suoi album, come ad esempio Educazione Sabauda (2015) o Sindrome di Tôret (2017). Willie è figlio di un musicista, e come da lui stesso spiegato nella sua famiglia tutti sanno suonare uno strumento, quindi per non "sentirsi escluso" imparò da giovanissimo a suonare il basso. Dopo aver sperimentato altri generi come il rock e il punk, alla fine delle scuole superiori si avvicina alla musica rap, segnando così la svolta nella sua carriera di musicista. Prima del lockdown del 2020 ha riempito per tre sere di fila il Teatro Concordia di Venaria Reale registrando il sold out. Con la canzone “PortaPalazzo” ha rappresentato la sua città dicendo: “se parlate con un africano di Torino, sicuramente vi racconterà che almeno un suo parente è passato di qui”.
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La soprannominarono quand’era giovanissima Pel di carota per le lentiggini e il colore rosso della sua capigliatura. E da allora quel nomignolo le è rimasto impresso. Rita nasce a Torino il 23 agosto 1945. Vive i suoi primi in via Malta 43, nel Borgo San Paolo. Si iscrive alla prima liceo dell’istituto statale Santorre di Santarosa ma, nell’inverno 1959-60, la famiglia si trasferisce in un altro quartiere, presso le case operaie della Fiat di via Chiala 19, alle “Basse” di Mirafiori Sud. Nello stesso periodo, appoggiata e incoraggiata dal padre Giovanni, debutta al Teatro Alfieri di Torino in uno spettacolo per ragazzini dal titolo Telefoniade, e realizzato dall’allora nazionale società telefonica Stipel. È quella la prima volta che Rita si esibisce davanti ad un pubblico vero e non composto da parenti e familiari, e lo fa in due uscite: nel primo tempo, truccata da ragazza di colore e con addosso un frac di raso nero nella interpretazione di Swanee, brano reso famoso dal grande cantante statunitense Al Jolson; poi, nel secondo tempo, nei panni di una inglesina in visita alla Città Eterna cantando il brano di Renato Rascel, Arrivederci Roma. Tra la fine del 1959 e l’inizio del 1961 si fa notare esibendosi prima in feste studentesche, poi in alcuni locali torinesi, come “l’Apollo Danze”, “La Serenella”, “La Perla”, l'”Hollywood Dance” o il “Principe”, guadagnandosi il soprannome di Paul Anka in gonnella.
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E’ un ex arbitro di calcio italiano, nato a Torino nel 1952, e padre di Luca e del dirigente della Juventus Alberto Pairetto. Originario della sezione arbitri di Torino, debuttò in Serie A nel 1981 e per molti anni fu un arbitro apprezzato sia in ambito nazionale, sia in ambito internazionale: insieme a Fabio Baldas ha rappresentato l'Italia al Campionato mondiale di calcio 1994 dove ha diretto soltanto l'ottavo di finale Romania-Argentina, vinta di rumeni per 3-2, visto che era stato vittima di un infortunio nella prima parte del torneo. Già al Campionato mondiale di calcio 1990 aveva svolto le funzioni di guardalinee. Legato a Torino per un’inchiesta che l’ha coinvolto nello Scandalo del calcio italiano del 2006, a causa dei frequenti contatti telefonici avuti con Luciano Moggi, venne rimosso dal ruolo che ricopriva nella Commissione Arbitrale dell'UEFA, venendo sostituito da Pierluigi Collina. Successivamente venne condannato in primo grado a una squalifica di 2 anni e 6 mesi, in secondo grado a 3 anni e 6 mesi, e a 2 anni e 6 mesi nella sentenza del CONI.
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Nasce a Torino il 2 Luglio 1961, da Francesco Parietti, chimico, e da Grazia Dipietromaria, scrittrice e pittrice. Rigorosa come il papà e fantasiosa come la mamma, Alba è cresciuta a Torino nel celebre quartiere di Madonna del Pilone ed ha avuto come compagno di scuola Marco Travaglio, divenuto giornalista. Dopo aver frequentato il Liceo artistico statale, ha iniziato la carriera artistica lavorando nelle radio locali. Del suo rapporto con Torino ha detto: «È faticoso. La amo e la odio. Come diceva Pavese, bisogna andarsene per poter tornare. Io sono una delle poche che l’ha lasciata veramente, Chiambretti e Littizzetto no. Ma continuo a esserle visceralmente legata. Sono scappata. Ero diversa. Non trovavo omologazione, non mi riconoscevo in nulla di ciò che vedevo né nella mia casa borghese di Corso Quintino Sella. Venivo emarginata dalle fanciulle con i vestitini accollati. Ero pronta a prendermi le colpe del mondo: se non potevo essere perfetta, volevo essere la migliore delle imperfette. Andavo al Nepenta dove c’erano gli spettacoli delle trans e stavo con loro. Ero a mio agio».
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Nato a Torino il 18 marzo del 1928, nonostante appartenesse alla terza generazione degli Olivetti, fu, in una certa misura, un pioniere. A lui si deve, infatti se la Olivetti, tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70, imboccò la strada per superare la tradizionale immagine di fabbrica di calcolatrici e macchine per scrivere, per avviarsi a diventare un'azienda leader nel campo dell'automazione dell'ufficio. Diventato amministratore delegato della società di Ivrea, solleciterà l'introduzione delle tecnologie e delle caratteristiche di "sistema" in nuovi prodotti per l'ufficio, investendo quindi di tali innovazioni il tessuto produttivo vitale dell'azienda. Cresciuto ad una scuola familiare che vedeva nella fabbrica il cuore della cultura e della società moderne, Roberto ne resse a lungo le sorti, fino a quando, nel ‘78, le alterne vicende che accompagnarono la nascita di quella "frontiera", non avrebbero ridimensionato di molto la partecipazione della famiglia nell'azienda. Spirito umanitario, passione per le riforme, amore per l'utopia: le qualità di famiglia furono ben presenti nel carattere di Roberto. Con lui, parafrasando un giudizio che Geno Pampaloni diede di Camillo e Adriano Olivetti, scompare un "frammento di un'Europa liberalsocialista sognata in un'Italia troppo diversa".
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