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  • Sono le 22 e 13 minuti e il cronometro in alto a destra ha appena superato il 45° minuto del secondo tempo, quando un difensore dell'Olympique Marsiglia lancia lungo in direzione di Chris Waddle, che però è partito nettamente oltre l'ultimo difensore del Milan. L'arbitro svedese Karlsson fischia il fuorigioco, ma l'atmosfera del Vélodrome è talmente carica di adrenalina, talmente prossima all'incendio, che in migliaia lo confondono per il fischio finale. E allora chi si è già portato a bordo campo – fotografi, cameramen, semplici tifosi – fa invasione, e l'arbitro si sbraccia per ricacciarli tutti indietro. Un crescente clima da Sudamerica. Costacurta lancia lungo verso Gullit, anticipato di testa, Massaro perde il contrasto e la palla finisce ancora sui piedi di Waddle, che inizia a correre a perdifiato verso l'area del Milan. Arriva solo davanti a Sebastiano Rossi, ma è stremato e si abbandona a un tuffo di puro sfinimento. Ma l'arbitro fischia ancora. Cos'ha fischiato? Rigore? Simulazione? La fine della partita? Fischia e gesticola. Il pubblico riprende a festeggiare, ma ancora una volta ha capito male. In preda al delirio, in pochi si sono accorti che è cambiata la luce: mentre Waddle correva, il riflettore a sinistra della tribuna principale si è spento senza preavviso. E così Olympique Marsiglia-Milan del 20 marzo 1991, quarti di finale di ritorno di Coppa dei Campioni, adesso, è una partita sospesa.

  • La TRISTE storia di ADRIANO l'imperatore“Adriano! O garoto de 17 anos entrou no jogo e no primeiro lance empata a partida no Morumbi!”. Il telecronista brasiliano si esalta perché sul prato del Morumbi di San Paolo è nata la classica stella, il diamante grezzo ma purissimo, i cui margini di miglioramento si vedono a occhio nudo, e uno s'immagina il massimo. Qualcosa che forse può andare persino oltre Ronaldo il Fenomeno, che nel 2000 si trova nel pieno del suo personale calvario e qualcuno inizia a sospettare che ormai sia il passato. Il 6 febbraio 2000 Adriano debutta con la maglia rubro-negra del Flamengo in una partita valida per il Torneo Rio-Sao Paulo, lanciato in campo al posto di Mauro Fonseca detto Maurinho – con la A. L'idea dell'allenatore Paulo Cesar Carpegiani si ripaga all'istante, dopo pochi minuti, con il primo gol della carriera da professionista del non ancora Imperatore. Gli addetti ai lavori già lo conoscono, perché tre mesi prima, novembre 1999, ha fatto parte dei 18 convocati del Brasile ai Mondiali Under 17, in Nuova Zelanda, Mondiali vinti proprio dal Brasile in finale contro l'Australia: lui non ha mai segnato, ma è stato l'attaccante titolare della Seleçao in semifinale e in finale, in un'edizione senza grosse stelle, in cui il capocannoniere, il ghanese Ishmael Addo, avrà una carriera anonima spesa tra Israele, Cipro e India. E il numero 10 del Brasile si chiama Cacà, ma non è quello che pensate voi: si scrive con due C, c-a-c-a, e nemmeno lui farà grossa strada.Questo Adriano lo conosce anche l'Inter, che in Nuova Zelanda ha spedito un osservatore, Adelio Moro, che l'ha prontamente segnalato alla società. Potrebbe arrivare già nel gennaio 2001, su spinta ulteriore di Salvatore Bagni, ma la crisi economica in Sudamerica rallenta le operazioni e a quel punto l'Inter di Marco Tardelli, piuttosto male in arnese, preferisce puntare sull'usato sicuro, Marco Ferrante. Ma adesso, per immaginare i primi sei mesi dell'anno solare 2001, pensate a un montaggio alternato in cui, mentre il convalescente Ronaldo non gioca un solo minuto in partita ufficiale, e mentre l'Inter arranca tra risultati umilianti, contestazioni e motorini lanciati dal secondo anello, Adriano scala alla velocità della luce il suo personale Pan de Azùcar, il Pan di Zucchero che domina Rio de Janeiro. Sulla panchina del Flamengo è seduto ora una leggenda come Mario Zagallo, 70 anni, che addestra Adriano a diventare qualcosa di spaventoso. Al Mondiale Under 20 in Argentina, estate 2001, fa cose eccezionali: segna due gol all'Iraq, uno al Canada, due all'Australia, uno al Ghana. L'Inter capisce che non si può più aspettare e impalca col Flamengo un'operazione di fantasia carioca: una triangolazione con il Paris Saint Germain con cui detiene le due metà del brasiliano Vampeta, un pacco epocale che nell'Inter ha fatto in tempo a giocare otto partite ufficiali prima di sprofondare nell'oblio. Ma ecco che Vampeta torna utile: il Flamengo lo acquista scambiandolo con due giocatori. Così al PSG va l'attaccante Reinaldo, 22 anni, e all'Inter, appunto, va Adriano.

  • Nell'autunno del 2020, quando l'Inter di Antonio Conte li ha incontrati nel girone di Champions League, i tifosi del Borussia Monchengladbach hanno tenuto un comportamento un po' insolito, quasi eccessivo per i luoghi comuni di una curva del Nord Europa. Si sono radunati sotto l'hotel dell'Inter fino alle 4 del mattino, cantando cori e sparando fuochi d'artificio per tenerli svegli, e a un certo punto hanno esposto uno striscione: “Ricordati Inter: things go better with Coke”. Le cose vanno meglio con una Coca-Cola. Che strano. Guerrilla marketing? Pubblicità nemmeno tanto occulta? O è una battuta? E dov'è la battuta? Per capire l'inside joke, bisogna conoscere la storia. Una storia di quasi 50 anni prima.Nell'ottobre del 1971 il mondo ascolta per la prima volta “Imagine” di John Lennon, ma poi non sempre si comporta di conseguenza. Anche il mondo del calcio, anzi l'Europa del calcio, che si fa avvelenare da una battaglia legale senza precedenti. Il 20 ottobre 1971 l'Inter va a giocare a Monchengladbach la partita d'andata degli ottavi di Coppa dei Campioni, contro un Borussiatravolgente che trionfa 7-1: ma l'Inter di fatto si è fermata dopo mezz'ora, quando Boninsegna è stato colpito da una lattina di Coca Cola lanciata dagli spalti, è stato portato fuori in barella e naturalmente è stato sostituito. Convinti di avere già partita vinta a tavolino, i giocatori dell'Inter hanno alzato le braccia dal manubrio e si sono lasciati sommergere. Ma a fine partita, con grande sorpresa, i dirigenti nerazzurri scoprono che i codici europei non funzionano come quelli italiani, e che non c'è alcun punto del regolamento che norma una situazione del genere. Insomma, varrà il risultato del campo: e l'Inter si è inconsapevolmente lasciata andare. 7-1. Bel guaio. E come si dice in questi casi?

    Ah sì: Better Call Prisco.

  • È esistito un tempo, prima dello streaming e di Livescore, prima degli spezzatini e delle Dirette Gol, prima di Sky e Tele+, in cui le partite di campionato si potevano seguire solo in tre modi: allo stadio, alla radio - Tutto il Calcio Minuto per Minuto - oppure al Televideo. E qui magari ai più giovani di voi dovrei spiegare che cos'è il Televideo, ma per non farla troppo lunga do per assodato che lo sappiate: si andava a pagina 202 e si rimaneva lì a fissare lo schermo, aspettando che i risultati delle varie partite si mettessero a lampeggiare, segno che era stato appena segnato un gol. Poi, per scoprire il marcatore, si andava nella pagina apposita della partita, e così via per tutto il pomeriggio. Bene, quel pomeriggio del 13 settembre 1992 il Televideo sembrava impazzito: lampeggiava di continuo come il cielo di un temporale estivo, e soprattutto una partita su nove sembrava fuori controllo. Pescara-Milan: l'unico primo tempo della storia della Serie A a essere finito 4-4.Metodo classico di sceneggiatura: si parte dal fondo, e poi si risale. Nel giugno del 1986, mentre in Messico un Diego sta trascinando l'Argentina al titolo Mondiale, in Abruzzo un altro Diego fa retrocedere il Pescara in Serie C all'ultimo minuto dell'ultima giornata: si chiama Diego Zanin ed è il numero 16 della Triestina, che vince all'Adriatico al 90' e fa sprofondare il povero Delfino in un futuro incertissimo, lontano dalla magia della Serie A che aveva assaporato sul finire degli anni Settanta. Però, per fortuna del Pescara, l'estate 86 non è solo l'estate di Maradona, ma anche del Totonero-bis, che travolge un pezzo di Serie A e mezza Serie B, compreso il Palermo, finito quintultimo e inoltre minato da una grave crisi economica che non gli farà superare l'estate. Il Pescara vive in apnea tutto luglio e agosto; formalmente è in Serie C, ma fissa speranzoso quella X inserita nei calendari di Serie B. Il direttore generale Franco Manni non vuole farsi troppe illusioni e ha allestito una rosa di ragazzini, con pochi reduci dall'ultima disgraziata stagione e un allenatore di 45 anni, pescato dalla SPAL, serie C1 girone A, dove allena da due anni e ha concluso la stagione al sesto posto, molto lontano dal Parma di Arrigo Sacchi che ha vinto il campionato. Ma di Giovanni Galeone c'è un dettaglio che ha colpito Manni: il primo anno a Ferrara aveva fatto due punti in sei partite, era stato esonerato, ma dopo un mese e mezzo i giocatori l'avevano rivoluto. I giocatori non stanno mai dalla parte dei silurati, quindi questo Galeone doveva avere dei numeri. Tre, in particolare: 4-3-3, il sistema di gioco con cui diverte e si distingue in una categoria paludata come la serie C, con il tridente Gustinetti-Bresciani-Trombetta in leggero anticipo di qualche anno sul Foggia di Zeman: “L'unico da cui ho copiato”, ammetterà sempre lui, “è stato il maestro Liedholm”.


  • “Ricordo il primo lancio col paracadute, a Pisa: eravamo affacciati dal portellone di un C-119, “Il vagone volante”. In cielo, a 500-600 metri d'altezza, prima di buttarci, Luciano si gira e mi fa: “Gigi, e se non si apre?”.(Luigi Martini)Un uragano biondo, travolgente: in campo un vulcano di dinamismo e intensità, un centrocampista all'olandese nella Lazio di Tommaso Maestrelli campione d'Italia 1974. Fuori dal campo una delle anime più forti e riconoscibili di uno spogliatoio spaccato anche fisicamente: lui fa parte della fazione di Gigi Martini e Mario Frustalupi, in fermissima opposizione a quella di Pino Wilson e Giorgio Chinaglia; e come tutti i calciatori del mondo, anche Luciano Re Cecconi ha mille soprannomi. Il più immediato è “Cecco”, la contrazione del cognome, che nella fantasia del giornalista del Corriere della Sera Franco Melli diventa “Cecco-Netzer”, per la somiglianza con Gunther Netzer, sublime fantasista della Nazionale tedesca. Il più gratificante è quello che gli ha regalato padre Antonio Lisandrini, il frate francescano che accompagna la squadra e ha celebrato il suo matrimonio con Cesarina. Lo chiama “il Saggio”, perché Re Cecconi è portatore sano di quella follia che scorre lungo la Lazio anni Settanta come un fiume in piena, ma in più ha conosciuto la vita vera: calzolaio fruttivendolo elettricista, assistente nell'autoofficina di suo cugino, prima di fare il salto nel calcio dei grandi, uno scudetto, due presenze in Nazionale, una convocazione pur senza mai scendere in campo ai Mondiali 1974. La pistola ce l'ha avuta anche lui, s'intende, come quasi tutti in quello spogliatoio in cui si spara un colpo di calibro 38 anche per spegnere la luce senz'alzarsi dal letto. “Alzati tu”. “No, alzati tu”. “Non mi va”. “Aspetta... bum”. “Buonanotte, domani mattina quando ti alzi fai attenzione ai vetri”. Il presidente Lenzini ha un conto aperto con l'hotel per i rimborsi di arredi e lampioni spaccati a colpi di arma da fuoco. Poi una sera Re Cecconi ha fatto finta di averne una in tasca, per fare uno scherzo, forse, non è chiaro, è tutto confuso, anzi non ha proprio senso. L'ultima sera di Luciano Re Cecconi è un pasticciaccio brutto che ha teatro non in via Merulana, come il romanzo di Gadda, ma in via Francesco Saverio Nitti, quartiere Fleming, una zona molto signorile di Roma Nord dove abitano calciatori, politici, giornalisti, funzionari pubblici, imprenditori. La Lazio ci respira le giornate, iniziandole e finendole al Caffé Fiocchetti, prima e dopo gli allenamenti a Tor di Quinto: qualche giorno a preparare il cappuccino ci puoi trovare persino Chinaglia. È lì che è stata scattata una delle foto di culto della Lazio anni Settanta: Chinaglia a capo chino che sta leggendo il giornale, e alle sue spalle una scritta sul muro: “Laziali Bastardi”.

  • Questa è una storia di uomini. Non per forza grandi uomini; ma uomini d'azione, che seppero farsi trovare pronti quando passò il treno, al posto giusto nel momento giusto. Sicuramente non grandi campioni: buonissimi giocatori sì, ma nessun fuoriclasse. Del resto l'Arsenal 1988-89 non ha aperto un ciclo – anzi, l'anno dopo non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni, perché eravamo nel pieno dei cinque anni di squalifica che l'UEFA aveva inflitto al calcio inglese dopo la strage dell'Heysel. E nei 22 convocati dal ct Bobby Robson ai Mondiali di Italia 90 non ci sarà alcun giocatore dell'Arsenal. Una squadra che è riuscita a diventare generazionale per incredibile effetto di una sola notte, che poi è diventata un libro, che poi è diventato un film. E pensare che l'aggettivo che veniva in mente pensando all'Arsenal galleggiante tra gli anni 80 e i 90 era uno solo, sempre lo stesso: “boring”. E bisognerà aspettare il 1994 affinché i tifosi dell'Arsenal possano affinare la propria autoironia, e cantare loro il coro definitivo sul gioco forse cattivo ma terribilmente efficace di quei Gunners, sull'aria di “Go West” dei Village People: “One-nil, to the Arsenal”, 1-0 per l'Arsenal.

  • Stiamo dominando. Palo di Gilardino, traversa di Zambrotta: tutto nel giro di 90 secondi. Stiamo schiacciando i tedeschi in casa loro, a Dortmund, dove la Germania non ha mai perso nella sua storia, e Lippi decide che è il momento di osare: al minuto 104 fuori Perrotta e dentro Alex Del Piero, la quarta punta insieme a Gilardino, Totti e Iaquinta. Del Piero si sistema subito nella sua zona preferita, sull'esterno sinistro, e aspetta fiducioso che il pallone... arrivi. E siccome in mezzo al campo detta legge Andrea Pirlo, il pallone arriva. Sono le stesse zolle dello stesso prato su cui undici anni prima, il 13 settembre 1995, il 20enne Alex da San Vendemiano aveva segnato il primo gol “alla Del Piero” su suolo internazionale, in faccia al numero 3 del Borussia, uno dei più irriducibili mastini in circolazione in Europa: Jurgen Kohler, ex juventino. E il tavolo è apparecchiato per ripetere la stessa giocata, in faccia a un altro numero 3, Arne Friedrich, tra l'altro molto meno spigoloso di Kohler. Ma sono passati undici anni, Del Piero ha 31 anni, è entrato da meno di due minuti ma gli manca lo spunto, la freschezza nelle gambe, non riesce nemmeno a tirare. Troppi muscoli? Troppa polvere? Forse come sempre ha ragione Fabio Capello, che ormai ne ha fatto una riserva della Juventus, solo 17 partite da titolare nel campionato appena concluso, e poi panchine su panchine? Forse Alex Del Piero deve rassegnarsi all'autunno?Poche ore prima, nel tardo pomeriggio di quello stesso 4 luglio 2006, è andata in scena la requisitoria dell'accusa nel processo di primo grado a Calciopoli: e il procuratore federale Stefano Palazzi ha chiesto che la Juventus venga retrocessa in serie C1, con sei punti di penalizzazione. Si respira l'aria pesantissima della fine di un'era, e il dolore e la fatica di quei giorni pesano di più, se sei da anni il capitano di quella Juventus. Basta questo per giustificare quel mancato spunto? Forse no, forse stiamo facendo troppa poesia: in fondo Del Piero con la Nazionale se n'è sempre rimasto un po' in disparte, mai capitano, oscurato prima da Baggio, poi da Totti, senza più nemmeno la numero 10, e soprattutto senz'aver mai vinto niente. Però aspettiamo. Perché dovete sapere che una volta, Marcello Lippi ha detto: “Per buttare giù Del Piero, non basterebbe una mandria di tori”.

  • Inizia tutto da un matrimonio. Michel Salgado, il terzino destro del Real Madrid che un mese prima a Parigi ha alzato l'Ottava Coppa dei Campioni della storia del club, ha appena sposato Malula Sanz, la figlia del presidente del Real Madrid Lorenzo Sanz. Un matrimonio in famiglia: il 5 luglio 2000, alla Chiesa di San Jeronimo a Madrid, è stato invitato tutto il madridismo che conta, e anche qualche forestiero come José Ramon De La Morena, conduttore radiofonico del programma “El Larguero” su Cadena Ser, che qualche ora prima, però, ha ricevuto la soffiata di una notizia che non farà piacere al padre della sposa. Qualcuno sta progettando la scalata al Real Madrid: le elezioni si terranno a metà luglio, Sanz le ha volute anticipare, convinto di vincerle a mani basse ed essere perciò in carica nel 2002, l'anno in cui si celebrerà il Centenario della Casa Blanca, fondata nel 1902. Ma qualcuno vuole fargli le scarpe: e quel qualcuno avrebbe un asso nella manica formidabile, e ancora nascostissimo. Possibile? Possibile, se quel qualcuno è Florentino Perez, il socio numero 5.894 del Real Madrid: la tessera gliel'aveva regalata suo padre, quando lui aveva 13 anni. Un ingegnere dall'aria mite, un costruttore silenzioso, per nulla incline al populismo, che non buca il video, ma che si è dato l'obiettivo più ambizioso che ci sia per un presidente del Real Madrid: riportare il club ai livelli dell'era di Santiago Bernabeu. Ricostruire il mito. E allora ha IL NOME. Un nome che è uscito da un sondaggio commissionato di nascosto da Perez a migliaia di soci del Real Madrid: se doveste indicare un solo nome che sognate di vedere giocare nel Madrid, chi scegliereste? E la maggioranza ha risposto Luis Figo, reduce da uno straordinario Europeo con il Portogallo, e soprattutto il vice-capitano del Barcellona.Il primo a scrivere di un pre-accordo tra Florentino e Figo, subordinato al risultato delle elezioni del 16 luglio, è stato il giornalista della , ma ad amplificarla in tutte le strade del Paese è De La Morena, che la annuncia in diretta nel giornale radio delle 20:30. Quando arriva al ricevimento, De La Morena viene travolto di insulti da un Sanz inviperito, che davanti a tutti lo accusa di essere un bugiardo. La festa è rovinata. Non s'è mai capito se fosse una notizia vera, un po' gonfiata o del tutto inventata: sta di fatto che Florentino si appoggerà volentieri a questa voce, senza confermarla ma senza nemmeno smentirla, per costruire la sua clamorosa vittoria elettorale. Viene scritto che Florentino ha fatto una promessa a tutti gli 83.697 soci del Real Madrid: se verrò eletto ma Figo non arriverà, pagherò a tutti voi la quota annua di iscrizione al club. Nemmeno Figo pensava davvero che Florentino alla fine avrebbe vinto, e forse quell'autografo sul pre-contratto era stato scritto con mano sin troppo leggera; ma così è, e poi in caso di passo indietro ci sarebbe da pagare una penale enorme, e poi in fondo Figo a Madrid andrà a guadagnare circa il quadruplo di quanto prendeva a Barcellona, e per pagare i 10,27 miliardi di pesetas che spettano al Barça, il neo-presidente attinge anche dal suo patrimonio personale.E così inizia la prima grande avventura di Florentino Perez a capo del Real Madrid, un'avventura tortuosa, complessa, non priva di frasi oscure su sfondo blanco, che si riassume in una parola di dieci lettere, sei consonanti e quattro vocali, che identificherà per sempre quella squadra in ogni angolo del mondo: GALACTICOS.

  • La sera del 24 settembre 2002, in Argentina, su “Infinito”, va in onda la seconda puntata di “Pasiòn y misterio”. “Infinito” è un canale a pagamento specializzato in storie del mistero, esoterismo, fenomeni soprannaturali. “Pasiòn y misterio” è una serie dedicata ai grandi misteri del calcio argentino. La seconda puntata si chiama “Gato Encerrado”. Che in spagnolo è un modo di dire, significa “c'è sotto qualcosa”, “qui gatta ci cova”. Ma in questo caso il titolo “Gato Encerrado” ha valore anche letterale: perché “gato encerrado” vuol dire letteralmente “gatto chiuso”, “imprigionato”. Sembra il titolo di un racconto dell'orrore di Edgar Allan Poe, un incubo psicologico all'insegna dell'ossessione e della paranoia, ma invece è la realtà – la realtà romanzesca, l'unica possibile, se sei in Argentina e c'è di mezzo il futbol.Avellaneda è una città qualche chilometro a sud di Buenos Aires che sorge sul fiume Riachuelo, che nell'Ottocento era di fatto il porto della capitale argentina. I due grandi stadi della città si trovano a 300 metri di distanza l'uno dall'altro, cinque minuti a piedi. Uno è il Cilindro di Avellaneda, la casa del Racing, costruito nel 1950, il primo stadio argentino con le tribune interamente coperte: per quei tempi, un gioiello di architettura. L'altro è la Doble Visera, la casa dell'Independiente, la prima squadra argentina a vincere la Libertadores ma senza poi riuscire a trionfare nell'Intercontinentale, perdendo due finali consecutive nel 1964 e 1965, entrambe contro l'Inter. Il Racing è la Academia, maglia biancoceleste. L'Independiente è “el Rojo”, maglia ovviamente rossa. I colori del paradiso contro i colori dell'inferno: potete già iniziare a intuire la rivalità. Il Racing è la squadra per cui faceva il tifo una leggenda vivente della cultura argentina: Carlos Gardel, la cui voce è stata dichiarata dall'UNESCO patrimonio culturale dell'Umanità, tessera numero 11.860 del club e amico personale di tanti calciatori del Racing anni Venti come Pedro Ochoa, citato espressamente in un suo tango, “Ochoìta, el crack de la aficiòn”. Per tanti decenni il “racinguismo” è stato sinonimo di allegria, bellezza, divertimento, ma quando arriva l'Intercontinentale le acque si increspano e ogni partita diventa una battaglia, un gioco da canaglie, uno spettacolo vietato ai minori come tutte le sfide tra Europa e Sudamerica negli anni Sessanta, che alla fine obbligheranno la FIFA a cambiare il format e spostarlo in campo neutro in Giappone. E il triplo confronto tra Racing Avellaneda e Celtic Glasgow dell'autunno 1967 non fa eccezione. Triplo? Triplo. Perché l'andata a Glasgow finisce 1-0 per gli scozzesi, punteggio che il Racing riesce a contenere anche grazie a un atteggiamento sfacciatamente ostruzionistico, con tutto il catalogo di sputi, strattonate e tirate di maglie sconosciuto in Europa, prendendo di mira soprattutto l'unico campione del Celtic, il numero 7 Jimmy Johnstone, tanto che a un certo punto Jock Stein quasi fa invasione di campo per tentare di placarli personalmente, con un po' di sano buon senso scozzese. Ma al ritorno in Argentina, davanti a 120 mila spettatori il che rappresenta ancora oggi il record di capienza del Cilindro, le cose si complicano ancora prima del fischio d'inizio: una grossa pietra colpisce in testa il portiere Ronnie Simpson, mettendolo fuori combattimento. Alcuni giocatori scozzesi vorrebbero dare forfait, ma a chi va comunicata la cosa? In tutto lo stadio non c'è un solo delegato FIFA né UEFA. Il primo tempo termina 1-1: a un rigore coraggiosamente concesso dall'arbitro uruguayano Marino, e trasformato da Gemmell, risponde il pareggio di Raffo segnato di testa in probabile fuorigioco. L'intervallo dura 26 minuti a causa della protesta del Celtic, che al rientro negli spogliatoi ha avuto la bella sorpresa di non trovare più acqua nei rubinetti e nelle docce.

  • “E comunque quello di Iuliano su Ronaldo era rigore”“Ma quale rigore, al massimo era ostruzione: punizione a due in area”“Ma ancora con questa ostruzione? Iuliano lo travolge in pieno!”“E' Ronaldo che si fa travolgere!”“Ma tu veramente dopo vent'anni continui a dire che non era rigore? Avevate avuto episodi a favore per tutto il campionato!”“Ma che stai dicendo? E il fallo di Taribo West su Inzaghi all'andata a San Siro?”“E vabbè, e il gol di Turone allora?”“Ah fai lo spiritoso? E allora Calciopoli?”“Calciopoli cosa?”“Abbiamo pagato solo noi! E le intercettazioni tra Facchetti e Bergamo? Quelle non te le ricordi?”Uff...Il fallo di Iuliano su Ronaldo non sanzionato dall'arbitro Ceccarini è uno degli spartiacque della storia del calcio italiano. È il più famoso errore arbitrale degli anni Novanta, un'epoca post-monopolio televisivo RAI, quando le polemiche risultavano per forza di cose un po' annacquate, diluite dal fatto che se ne parlava solo pochi minuti la domenica sera, al limite il lunedì mattina al bar o in ufficio, senza tornarci su a ogni ora del giorno e della notte. Ma gli anni Novanta erano anche un'epoca pre-Internet: oggi ogni sciocchezza viene ingigantita, amplificata e diventa moltiplicatore di veleno. Nel 1998 ovviamente c'erano già le tv, tante tv, pubbliche, private, locali, romane e milanesi. C'erano i giornali, tanti giornali, sportivi e generalisti, di Torino e di Milano. Non c'era ancora il Web – e menomale. Ma poi anche il Web si è impegnato a rendere eterna questa guerra civile di cui non s'immagina ancora la fine, che gira intorno a quei maledetti cinque secondi attorno alle 16:25 di domenica 26 aprile 1998.

  • Quando raccontiamo le storie dei grandi campioni, quando cerchiamo di riannodare il filo

    delle loro imprese, ci focalizziamo spesso sui gesti tecnici. Sul colpo a effetto, sul numero,

    sulla giocata che cattura l’attenzione quando meno ce l’aspettiamo. Facciamo

    inconsapevolmente passare in secondo piano un aspetto che invece è fondamentale per

    tutto questo: il corpo. Per ogni gesto tecnico che vediamo, dietro c’è un corpo che deve

    non solo assecondarlo, ma proprio plasmarlo. Non è solo questione di mente, di intuito,

    della capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. C’è anche un corpo da far

    funzionare: la giusta coordinazione, lo scatto, il modo di arrivare con i piedi e le gambe sul

    pallone prima di calciarlo in rete. E sono corpi, quelli dei calciatori, che vengono martoriati

    dallo sforzo. Una fatica che si protrae per anni, una fatica diversa da quella che siamo

    abituati a riconoscere in maniera naturale: non è lo sforzo di una persona qualunque che

    si alza presto per andare a lavorare i campi, un tipo di pressione che riscontriamo in modo

    immediato, che facciamo nostra per empatia, che ci è familiare. Un pensiero comune è

    che quelli sono milionari, che è giusto che fatichino ed è ancor più giusto che non si

    lamentino. La verità è che i calciatori, come tanti altri sportivi, portano il loro corpo a un

    grado di esasperazione talvolta irreversibile. Ogni scatto, ogni conclusione, ogni colpo di

    testa, fa alzare l’asticella dell’usura. E poi ci sono i casi estremi, quelli dei calciatori che,

    per un motivo o per un altro, finiscono per avere ripercussioni sulla loro vita dopo il calcio.

    È il caso di due meravigliosi centravanti che hanno attraversato gli anni Novanta: nel

    momento in cui uno dei due iniziava a vivere il momento più difficile, quello che lo avrebbe

    poi portato a lasciare prematuramente il calcio, l’altro sbocciava, meraviglioso, bellissimo.

    Pur di rinunciare al dolore alla caviglia, pur di riuscire ad avere una vita normale, Marco

    Van Basten un giorno decise – sbagliando tragicamente - di farsela bloccare, di rinunciare

    alla piena mobilità. Era, secondo lui, il prezzo da pagare per tutti quei tacchetti che

    gliel’avevano martoriata. Ma oggi non è di lui che vi voglio parlare, ne del fatto che le cose

    per Van Basten sarebbero forse potute andare diversamente, o forse no...Vi parlo di un

    uomo che ha legato la propria carriera a un certo tipo di irruenza fisica, un impatto

    primordiale con gli avversari e con il pallone, inteso come oggetto da calciare con tutta la

    forza che aveva in corpo. E che si è ritrovato, una volta lontano dai riflettori, a dover fare i

    conti con delle cartilagini ormai svanite, con il rumore delle ossa che si toccano, con i

    dolori allucinanti che tutto questo comporta. Quello tra Gabriel Omar Batistuta e il calcio

    non è mai stato un rapporto di amore. È stato un centravanti di mestiere, perché così ha

    interpretato lo sport: una professione da onorare, dando in cambio tutto quello che aveva,

    cartilagini comprese. E per quella magia che avvolge il mondo del calcio, in cambio ha

    ricevuto puro amore.

  • «Sono nato a Jacarezinho e sono infinitamente grato alla favela. Qui ho imparato a vivere
    con dignità, ho capito che le persone, per essere rispettate, devono parlare in maniera
    schietta. Ecco perché dico sempre la verità: non mi importa che possa fare male a
    qualcuno»

    Rio de Janeiro è una città sterminata. Sotto gli occhi e le braccia spalancate del Cristo
    Redentore del Corcovado si cela un mondo: quello smaccatamente turistico di
    Copacabana e Ipanema, quello sfacciato e divertito del Carnevale più conosciuto del
    mondo, quello capace di racchiudere una foresta, la foresta di Tijuca, all’interno di una
    città. Ha ospitato Mondiali e Olimpiadi, è stata capitale del Brasile per quasi due secoli.
    Per buona parte può essere paragonata alle principali metropoli mondiali, ma è una terra
    di enormi contrasti, emblema del Brasile stesso. Le favelas più conosciute ed estese del
    Paese si trovano proprio a Rio: baraccopoli realizzate con materiali di fortuna e strade
    nelle quali proliferano degrado e criminalità. Hanno rappresentato l’approdo naturale per
    migliaia, forse addirittura milioni, di ex schiavi: nel maggio del 1888 venne promulgata la
    Lei Áurea, la Legge d’Oro, che aboliva la schiavitù nel Paese, ultimo atto di un processo di
    abolizione che era iniziato quasi quaranta anni prima, nel 1850. A firmare la Lei Áurea fu
    Dona Isabel, principessa imperiale del Brasile, insieme al ministro dell’Agricoltura
    dell’epoca, Rodrigo Augusto da Silva. Era, appunto, 1888. 135 anni fa. Solo 135 anni fa. Il
    Brasile, infatti, è stato l’ultimo Paese del continente americano ad abolire la schiavitù.
    Una delle principali favelas di Rio de Janeiro è Jacarezinho, nella zona nord della città.
    Secondo gli studiosi, non si tratta di una semplice baraccopoli, ma di un vero e proprio
    quilombo replicato in area urbana: per quilombo si intende una comunità fondata da
    schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano rimasti a lungo prigionieri,
    generalmente collocata nelle zone interne del Paese. Questa la spiegazione del termine
    nel portoghese brasiliano. Se invece scendente giù in Argentina, armar un quilombo
    significa semplicemente fare un gran casino...ogni collegamento non credo sia puramente
    casuale...Tornando a Jacarezinho, ha rappresentato il rifugio per molti di quegli schiavi
    deportati, diventando in assoluto la favela con la più alta concentrazione di afro-americani.
    Un territorio fortemente collegato alla figura di Getulio Vargas, visto che si trattava di
    un’area di proprietà della sua famiglia. Vargas fu il leader della rivoluzione brasiliana del
    1930, che pose fine alla Prima Repubblica: all’epoca presidente dello stato del Rio Grande
    do Sul, fu sconfitto alle presidenziali da Julio Prestes e guidò l’insurrezione in seguito
    all’assassinio di Joao Pessoa, il suo candidato vicepresidente.

  • Guardate questo fermo immagine. Risale all'8 marzo 1998, è un Parma-Inter di campionato. Il pallone, lo vedete, è in possesso del Parma: un difensore, Roberto Mussi, lo sta portando fuori dall'area. Qualche metro indietro si riconoscono Cannavaro e Thuram, al limite dell'area piccola individuerete facilmente anche Ronaldo il Fenomeno. Purissima Serie A anni Novanta, la migliore di sempre. Ma... non c'è il portiere! Dov'è il portiere? Dov'è Buffon, e perché la porta del Parma è clamorosamente vuota nonostante il pallone sia ancora in gioco, all'interno dell'area di rigore? Se avrete qualche minuto di pazienza ve lo diremo, e vi spiegheremo perché questa è una delle immagini più simboliche della carriera di Gigi Buffon – un'immagine in cui lui letteralmente NON C'E' – e riassume il valore e la diversità di uno dei più grandi portieri di tutti i tempi. Ora guardate questa seconda immagine: questa la riconoscete, no? La parata più gloriosa della carriera di Buffon – forse non la più bella, ma sicuramente la più gloriosa – nasconde un segreto tecnico. Guardate le gambe: al momento dell'impatto tra il pallone e la mano destra di Buffon, le gambe sono ancora perpendicolari al terreno, quasi verticali. È lo stesso gesto tecnico che ritroviamo in tanti altri momenti della sua carriera, sia prima che dopo, per esempio in questa parata molto simile ma molto meno famosa contro il Widzew Lodz, agosto 1997, esordio assoluto in Champions League, quando Gigi non aveva nemmeno vent'anni. Oppure in questa parata su Luis Suarez, in Barcellona-Juventus del settembre 2017, quando Buffon aveva già 39 anni. Lo stile della parata su Zidane, poi replicato così tante volte, risponde in parte a una delle grandi domande sulla carriera di Buffon: come ha fatto a durare così tanto? 1175 partite in carriera, 657 in Serie A, 176 partite in Nazionale: non possono essere stati solamente gesti di cortesia dei vari presidenti. No, oltre a un talento smisurato che era evidente a tutti fin dalla sua prima appar izione, dev'esserci anche un sistema per rimandare il declino fino a dopo i quarant'anni.

  • Il calciatore più anziano mai schierato in Serie A da Carlo Mazzone si chiamava Renato Campanini, giocava nell'Ascoli ed era nato nel 1938. Il più giovane si chiamava Luca Tedeschi, giocava nel Bologna ed era nato nel 1987. Non sono giocatori famosi, ma il punto è un altro: tra loro due ci sono 49 anni, quasi mezzo secolo di storia d'Italia, una guerra mondiale, un referendum per passare dalla Monarchia alla Repubblica, un boom economico, svariate crisi economiche ed energetiche, otto Presidenti della Repubblica, due Re, sei Papi. Mazzone ha allenato l'Italia, l'ha letteralmente vista crescere, e non parliamo solo di Totti, Baggio, Antognoni ma di centinaia di... fuoriclasse, ottimi giocatori, brillanti promesse, promesse mancate, meteore, delusioni. Per 792 partite di Serie A, più tre spareggi salvezza, più due spareggi UEFA. Ha debuttato in Serie A nel 1974 quando nella tv c'erano solo due canali, il Primo e il Secondo, ed è tornato negli spogliatoi per l'ultima volta nel 2006, quando dall'altra parte del pianeta qualcuno era già riuscito a collegare il mondo intero con un'unica grande rete. Dalle dirette di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, ma solo i secondi tempi, all'invadenza dei social dove alla fine era sbarcato anche lui, al giro di boa degli 80 anni, con l'aiuto del nipote Alessio che gli gestiva gli account. Mazzone è romanzo popolare, romanzo familiare, autobiografia positiva di una Nazione che è sempre pronta a bersagliare con l'invidia e la cattiveria i suoi figli migliori, ma in cinquant'anni su Mazzone non ha mai avuto niente da dire. C'è soprattutto l'etica del lavoro, la passione per il lavoro, qualunque esso sia: umile o aristocratico, di fatica o di concetto. Da bambino Carletto Mazzone aiutava suo padre nell'officina di Trastevere, da uomo ha solcato i mari della Serie A per ventotto stagioni senza mai far pesare il proprio status, senza mai dire "il mio calcio", senza mai voler essere didascalico. Ogni tanto con orgoglio ha rivendicato le proprie conquiste, i propri titoli: nessuno scudetto e nemmeno nessuna coppa europea, al massimo una semifinale di Coppa UEFA con il Bologna, per quanto clamorosa, rigenerando un campione come Beppe Signori e spremendo il massimo da gente come Jonathan Binotto e Amedeo Mangone. Nessun trofeo, a parte una Coppa Italia vinta da allenatore-ombra della Fiorentina nel 1975, ma qualcosa forse di più sottile e profondo. La certezza riconosciuta, universale, di essere un uomo perbene.

  • Silvio BERLUSCONI in 21 storie ||| Il presidente più VINCENTE di sempre

    AL DIAVOLO!Formalmente, Silvio Berlusconi è stato presidente del Milan dal 10 febbraio 1986 al 13 aprile 2017. 31 anni e 29 trofei, tra cui 8 scudetti, 5 Champions League, 2 Coppe Intercontinentali e un Mondiale per Club. Ma scendendo più in profondità, la sua epoca splende e passa alla storia soprattutto per quello che ha fatto in prima persona fino alla primavera 1994, fino a quando l'impegno politico non lo ha costretto a delegare la parte sportiva del suo impero, sempre di più, ad Adriano Galliani. Fino ad allora, non c'era filo d'erba di Milanello che si muovesse senza il consenso di Berlusconi: un uomo che, comunque la pensiate, ha cambiato radicalmente il mercato, la comunicazione, la tattica, il formato delle competizioni, persino le regole del gioco del calcio. A volte ha esagerato, altre volte ha speso troppo e non è stato un bell'esempio, altre ancora è stato cattivo maestro di veri e propri avventurieri che, non essendo ricchi e potenti quanto lui, con il pallone si sono rovinati, e hanno rovinato altre società. Ma una cosa è certa: sul calcio di oggi Berlusconi ha lasciato un'impronta profonda e incancellabile quanto quella di Buzz Aldrin sul suolo lunare. E alla fine è proprio così: ci piaccia o no, ci sia piaciuto o no, Silvio Berlusconi è stato il nostro “man on the moon”.Succede tutto nel giro di poche settimane: l'Associazione Calcio Milan è sull'orlo del baratro. A dicembre il presidente Giussy Farina ha annunciato le dimissioni e il motivo si scopre due settimane dopo: il vicepresidente Gianni Nardi, un imprenditore milanese a cui Farina deve sette miliardi di lire, ha presentato richiesta di sequestro delle azioni di Farina che costituiscono il 51% del Milan. Si apre la crisi e si scoperchia il pentolone: i giocatori non ricevono da mesi lo stipendio, l’Irpef non pagata supera i tre miliardi di lire, alcuni club battono cassa, ad esempio il Portsmouth non ha ancora ricevuto il pagamento della terza rata di Hateley. Farina scappa in Namibia, sulle rive del fiume Okavango, dove non esiste l'estradizione per reati fiscali; la gestione del Milan passa a Nardi. Il petroliere Dino Armani sembra a un passo dal rilevare la società e ha già annunciato il suo metodo per risanare i conti: vendiamo Baresi alla Sampdoria e Maldini alla Juventus. Sabato 8 febbraio il Cavaliere convoca il suo gabinetto di guerra a Villa Suvretta, un sontuoso palazzone di pietra grigia a Sankt Moritz, che gli è stato affittato dallo scià di Persia per 436 milioni all’anno. Per evitare di rimanere impantanato nella burocrazia e nei ricorsi, bisogna forzare la mano, magari anche minacciare di fare un passo indietro. Il 9 febbraio, in Milan-Sampdoria, il popolo di San Siro insorge con striscioni molto espliciti: “Silvio, cancella questa società di ladri”. Anche Nardi “tifa” per Berlusconi: prende tempo con Armani e la sera del 10 febbraio chiude la trattativa con il Cavaliere. Vanno tutti a festeggiare alla Risacca, un ristorante in via Marcona a un passo da piazza Cinque Giornate, fino alle due e mezza del mattino. A quell’ora già sono aperte le prime edicole: l’allegra combriccola si trascina fino in Porta Venezia, in cerca della storica prima pagina della Gazzetta. Foto di repertorio del Cavaliere con un bicchiere in mano, e accanto il titolo: “Berlusconi annuncia: sì, il Milan l'ho preso io”.