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  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7674

    OMELIA VI DOMENICA T. ORD. - ANNO B (Mc 1,40-45) di Giacomo Biffi

    Domandiamo alla parola di Dio, che ci è stata offerta nella prima parte della nostra assemblea, il nutrimento sostanzioso del nostro spirito, che, se non è alimentato, fatalmente deperisce, si mondanizza e a poco a poco diventa impermeabile alla luce che viene dall'alto. Possiamo raccogliere due serie di insegnamenti. La prima ci è offerta dalla seconda lettura, nella quale san Paolo ci dà alcune raccomandazioni molto pratiche e molto concrete. La seconda serie può essere ricavata dalla prima e dalla terza lettura, ambedue tematizzate sul male terribile della lebbra.
    LA RETTA INTENZIONE DA' VALORE A OGNI NOSTRO ATTO
    Come avete sentito, l'apostolo non ci dice di non mangiare e di non bere; e neppure di disturbare, con zelo indiscreto e sviato, quelli che mangiano e bevono; ma di mangiare, bere, fare ogni cosa per la gloria di Dio. Dove si vede che sono sì importanti le cose che si fanno; ma è ancora più importante la consapevolezza e la rettitudine del motivo per cui si agisce. È importante il "che cosa", ma è più importante il "perché". E il "perché" vero, valido, prezioso, non deve essere orizzontale e terrestre, ma verticale e trascendente: dobbiamo fare tutto per la "gloria di Dio", cioè cercando di conformare pienamente le nostre azioni alla sua volontà, in modo che in noi e nella nostra condotta risplenda davanti a tutti il suo disegno d'amore.
    ANNUNCIARE IL VANGELO SENZA CEDIMENTI
    San Paolo dice anche di fare come lui, che cercava di "piacere a tutti", Giudei e Greci. E la cosa è un po' comica, perché se c'è stato uno che ha urtato tutti - e le ha prese da tutti, Giudei e Greci - è proprio stato lui. Del resto, lui stesso in un'altra parte delle sue lettere afferma: Se volessi piacere agli uomini, non sarei un vero servitore di Cristo.
    Ma non c'è contraddizione: noi dobbiamo sforzarci di vivere da gentiluomini, che si sforzano di non recare mai pena a nessuno col loro comportamento, che perciò si preoccupano di evitare ogni asprezza di modi, ogni disprezzo delle persone, ogni grossolanità di linguaggio e di tratto. Ma dobbiamo anche annunciare tutto il Vangelo di Cristo, senza compromessi, senza cedimenti, senza genuflessioni ai miti del nostro tempo e alla prepotenza delle culture dominanti. È indubbio che, così facendo, nonostante il nostro impegno a essere dei gentiluomini, a molti non riusciremo simpatici. Però saremo discepoli veri del Signore Gesù che ha detto: Guai a voi, quando tutti gli uomini parleranno bene di voi.
    LE "CRUDELTA' NECESSARIE" DI CUI DOBBIAMO LIBEARCI
    La lebbra è nella concezione ebraica la "primogenita della morte" (come si esprime il Libro di Giobbe, 18,3). I colpiti da questa malattia venivano accuratamente segregati. Il lebbroso - abbiamo ascoltato - se ne resterà solo, abiterà fuori dell'accampamento. E così alla sofferenza fisica si aggiungeva la disperazione dell'isolamento. Era una "crudeltà necessaria", con la quale la società dei sani cercava di difendersi e di preservarsi. E in quel mondo la cosa è anche spiegabile. Ma la dottrina delle "crudeltà necessarie" sta imperversando anche nel nostro tempo, dove non si giustifica affatto.
    Per esempio, chi non esita a uccidere per costruire un mondo che secondo luisarà migliore, non fa che seguire questa dottrina. In questo secolo è stata applicata più volte contro milioni di persone, vittime di ideologie di colore apparentemente diverso, ma in realtà tutte accomunate dalla sciagurata persuasione che si possono uccidere le persone per far trionfare un'idea. Ma anche nella nostra vita di ogni giorno ci si imbatte spesso in questa dottrina. Basti pensare alla determinazione e alla durezza con cui vengono estromessi gli anziani dalla partecipazione piena alla vicenda umana. Basti pensare alla violenza con cui si colpisce o si offende chi la pensa in modo diverso. Basti pensare alla facilità con cui si uccide un essere umano che si affaccia all'esistenza, che ha il sol torto di infastidire e di essere scomodo.
    Ebbene, Gesù rifiuta il principio della "crudeltà necessaria" e gli oppone la follia sublime della misericordia: Mosso a compassione, abbiamo ascoltato. Questo è il vero grande miracolo, che i suoi discepoli sono chiamati a moltiplicare: riuscire a farci stare la pietà e l'amore dove pare ci sia posto solo per il calcolo, la valutazione scientifica, il rigore egoistico della sola giustizia.
    Stese la mano e lo toccò: questo è il secondo miracolo. "Lo toccò": il lebbroso era per definizione un'intoccabile; dal momento che la mano di Gesù si avvicina alla sua carne corrotta, quell'uomo sente che il cerchio che l'imprigiona e l'opprime è spezzato. Se c'è uno che ha il coraggio di riprendere i contatti con lui, allora vuol dire che egli è ritornato uomo tra gli uomini.
    La lebbra scomparve. E Gesù ordina al guarito di rispettare scrupolosamente le prescrizioni della legge, che imponeva il controllo dei sacerdoti e l'offerta di un sacrificio di purificazione. Questo forse ci meraviglia: sembra un inutile formalismo.
    Ma Gesù è sempre rispettoso delle strutture esistenti. Non crede che il mondo migliori con la violazione delle leggi (a meno che non siano evidentemente inique, ma allora non hanno forza di legge). Non crede che gli uomini possano diventare più felici rovesciando gli ordinamenti. Le rivoluzioni esteriori di solito ottengono come principale risultato non di abolire la prepotenza, ma di cambiarne i pretesti e di avvicendarne i titolari.
    Gesù sa che i veri rivoluzionari (cioè quelli che cambiano veramente qualcosa a questo mondo) sono quelli che tentano di cambiare i cuori, a cominciare dal proprio. La conversione del nostro cuore è dunque ciò che domanderemo come grazia particolare al Signore, adesso e nel tempo di quaresima che ormai si è fatto vicino.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7660

    OMELIA V DOMENICA T. ORD. - ANNO B (Mc 1, 29-39) di Giacomo Biffi
    LA "GIORNATA TIPO" DEL SIGNORE GESU' MODELLO PER IL CRISTIANO
    Il fascino di questa pagina evangelica sta principalmente nel fatto che essa ci fa intravvedere, con molta ricchezza di particolari, una intera giornata del Signore Gesù. È una giornata di sabato, ma riesce a darci l'idea di come egli abitualmente viveva, come utilizzava il suo tempo, a quali occupazioni dava la preferenza; e quindi in che modo egli ha creduto di poter lavorare per la salvezza degli uomini.
    Per capire con esattezza la lezione che ne deriva, dobbiamo ricordare che anche la società del suo tempo aveva grandi mali esteriori e grandi problemi: problemi di ingiustizia sociale (c'erano non solo i poveri e i miserabili, ma perfino gli schiavi); problemi di sopraffazione politica (la terra d'Israele era dominata dagli stranieri); problemi di comportamento di fronte alla vita nazionale (bisognava o no partecipare alla lotta partigiana e alla guerriglia condotta dagli zeloti?). Su questo sfondo sarà più facile cogliere la natura delle scelte e delle preferenze di Gesù.
    Tutta la mattinata è spesa nella sinagoga a dare l'annuncio, attraverso alla lettura e alla interpretazione della Sacra Scrittura, dell'imminenza del Regno di Dio e della necessità della conversione. Il Signore ritiene che la salvezza degli uomini cominci da qui. Ritiene che di gente che crede di dover odiare in nome della solidarietà di nazione o di classe o di fazione politica; di gente che si fa prepotente in nome della giustizia; di gente che arriva perfino a uccidere per un astratto amore dell'umanità o per l'utopia della futura società perfetta, ce ne è sempre qualcuna di troppo. Gli uomini hanno invece una estrema scarsità della verità, cioè della parola che davvero nutre, illumina, salva.
    E per preservare la sua totale disponibilità all'annuncio evangelico - insidiata dalle richieste sempre più pressanti di interventi contro la miseria e il dolore - non si ferma a lungo nello stesso posto: Andiamocene altrove... perché io predichi anche là: per questo sono venuto.
    Finita la fatica della predicazione, Gesù - che non si presenta mai nelle vesti antipatiche del superuomo, fatto di ferro e insensibile alla stanchezza - prende un po' di riposo nella casa ospitale di Simone e di Andrea, dimostrando di accettare e di apprezzare la calda intimità di una famiglia. Ma poiché non c'è casa dove non ci sia qualche pena, anche lì trova una sofferenza e una preoccupazione: qualcuno lì è seriamente malato. Il Salvatore non si sottrae alle suppliche che gli vengono dai legami dell'amicizia, e guarisce la suocera di Simone.
    Appena arriva il tramonto quella povera casa subisce una specie di assedio. Calato il sole, finiva il riposo del sabato, e tutti potevano trasportare i loro infermi senza violare la legge. E tutta la misera e tormentata esistenza umana - cui sono toccati in sorte "mesi di illusione e notti di dolore" - sembra chiedere aiuto al Figlio di Dio.
    E Gesù, già stanco della giornata intensa, non si nega, anzi si prodiga per lenire ogni dolore. Non rifiuta la misericordia dei casi singoli con la ragione che bisogna piuttosto trovare la soluzione radicale, cambiando le strutture della società.
    Finché scende la sera e tutto ritorna in pace.
    In una giornata così assillata da non lasciar respiro, mancava ancora qualcosa. Mancava il tempo della preghiera silenziosa e solitaria. Gesù trova anche questo tempo, all'alba, quando ancora era buio.
    Avrebbe potuto dire: "Tutta la mia giornata è una preghiera". Oppure: "La vera preghiera è fare del bene agli altri". Oppure: "Io prego solo quando mi sento". Oppure: "La preghiera consiste nel far comunità con gli altri e avere una forte esperienza di fraternità". O qualcun altro dei molti lampi di insipienza, coi quali sappiamo giustificare l'aridità del nostro cuore e la nostra incapacità di isolarci sul serio dal mondo per entrare in dialogo con l'unico interlocutore veramente necessario, che è il Padre nostro che è nei cieli.
    Gesù invece si ritirò in un luogo deserto e là pregava.
    EVANGELIZZAZIONE, LOTTA CONTRO IL MALE E PREGHIERA SONO I PILASTRI DELLA VITA CRISTIANA
    Questa era la giornata di Gesù, la giornata dell'unico Salvatore del mondo, tutta presa dall'annuncio del Regno e dell'amore del Padre; dalla semplicità del colloquio tra amici all'interno di una casa, dall'azione di misericordia verso tutte le pene degli uomini che concretamente gli venivano vicino, dalla preghiera segreta e appassionata, lontano dal chiasso degli uomini e dalle chiacchiere della gente; chiacchiere che, anche quando sono stampate sui giornali e sulle riviste, sempre chiacchiere sono.
    Se vogliamo adesso tentare di cogliere la logica interiore dell'azione salvifica di Cristo, che abbiamo visto dispiegarsi lungo le ventiquattro ore di un giorno, possiamo forse dire così.
    Tutto comincia con l'annuncio e l'insegnamento della verità; non con il confronto dei pareri e l'ascolto delle opinioni, ma con una dottrina nuova con potenza, come dice Marco. Questa irruzione di una luce dall'alto, che è la divina Rivelazione accolta nella fede, è l'unica vera novità nella storia del pensiero umano, che di solito è storia di errori ripetuti e di annebbiamenti ritornanti.
    Questa luce però non è un fatto puramente teoretico o speculativo, ma è radice, premessa, avvio di un cambiamento della realtà totale. Ma perché questo rinnovamento possa avvenire, deve essere sconfitto e spossessato il principe di questo mondo, che è il diavolo. Scacciò i demoni, è l'annotazione su cui più si insiste in questa pagina di vangelo.
    È una lotta senza quartiere; dai demoni Gesù non accetta neppure il favore di una testimonianza: Non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Dimenticare che questa lotta esiste, che è ancora in corso, che ci coinvolge tutti, è una grave infedeltà al messaggio di Cristo.
    Come segno e primizia della vittoria sul demonio, dal quale sono venuti tutti i mali dell'uomo anche fisici, Gesù moltiplica le guarigioni e gli atti di pietà verso i singoli sofferenti, senza però arrivare mai a lasciarsi imprigionare o distrarre da questa benefica attività. A chi gli dice: Tutti ti cercano, cioè cercano la tua meravigliosa capacità di guaritore, risponde: Andiamocene. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni. L'annuncio della verità che salva e la guerra contro il demonio, che si annida in tutti gli angoli della nostra esistenza, sono l'indiscutibile programma della sua missione di Salvatore.

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  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7659

    OMELIA IV DOMENICA T. ORD. - ANNO B (Mc 1, 21-28) di Giacomo Biffi
    L'episodio descrittoci dalla lettura evangelica di oggi si colloca all'inizio della vita pubblica di Gesù. Dopo essere stato battezzato nel Giordano da Giovanni, Gesù ritorna al nord, nella sua terra di Galilea, e qui, sulle rive del mare, chiama a sé i primi quattro apostoli. Sono due coppie di fratelli: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, tutti e quattro pescatori.
    Poi va a Cafarnao, dove Simone, uno dei quattro, aveva la sua famiglia, e dove per un po' di tempo il giovane profeta di Nazaret si stabilisce.
    Proprio nella sinagoga di Cafarnao comincia il suo insegnamento, come abbiamo oggi ascoltato.
    Contrariamente a quanto spesso si crede, Gesù non ha cominciato predicando per le strade e per le piazze. All'inizio egli si inserisce piuttosto nelle normali abitudini religiose ebraiche: si reca come tutti all'adunanza del sabato e, come erano soliti fare i rabbini, anche lui nella sinagoga legge e commenta qualche passo della Bibbia.
    LE PAROLE DI CRISTO DIVENTANO FATTI
    Nel modo con cui Gesù dà principio alla sua missione non c'era niente di inconsueto e di straordinario, non c'era niente che potesse suscitare scalpore o meraviglia tra gli abitanti di Cafarnao.
    Ma se l'involucro esteriore è quello di sempre, il contenuto dell'intervento di Cristo nell'assemblea liturgica del suo popolo appare subito una novità senza precedenti. L'evangelista sottolinea lo stupore che a poco a poco prende tutti i presenti, appena il giovane maestro comincia a parlare.
    Qual era la "novità", che rendeva Gesù diverso da tutti gli altri abituati a prendere la parola nella sinagoga?
    Il racconto la esprime con la parola "autorità": Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi (Mc 1,22). E più avanti: Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità" (Mc 1,27).
    "Autorità". In realtà, il testo originale greco adopera un termine che significa "potere" o "potenza". Gesù colpisce perché non si presenta come uno che ricerca l'interpretazione più plausibile, che chiarisce i concetti, che dialoga con gli altri studiosi della legge, che ascolta ed esamina le varie ipotesi, ma come uno che ha il "potere". Ha il "potere" sulle parole e sulle idee, e stabilisce lui che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato; e ha addirittura il "potere" sull'eterno nemico di Dio: il demonio: Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono! (Mc 1,27). Egli non solo dice, ma anche decide; non solo parla, ma anche opera; non solo spiega la parola di Dio, ma combatte e vince il male dell'uomo, combatte e vince il grande e oscuro insidiatore del nostro bene e della nostra salvezza.
    LA PAROLA DI DIO, FORZA TRASFORMANTE
    Dall'atteggiamento del Signore verso la Sacra Scrittura possiamo raccogliere una prima preziosa indicazione. Senza dubbio il Libro di Dio va letto con umile attenzione, va studiato nei suoi punti oscuri, va analizzato in tutte le su implicazioni. Questo è giusto e opportuno; purché però non si dimentichi che questa è solo la premessa perché dal Libro di Dio scaturisca l'energia rinnovatrice della vita, e la lettura della pagina sacra sia immediatamente posta al servizio della nuova realtà, che ci è stata data dal sacrificio di Cristo e che noi dobbiamo far arrivare in tutti gli angoli dell'esistenza.
    Dunque la "parola" non basta e non serve, se non diventa anche grazia, forza, capacità trasformante. Dobbiamo stare attenti a non fare della nostra lettura della Bibbia un ritorno alla lettura rabbinica, dimenticando che noi ormai viviamo nell'epoca della "parola di Dio" realizzata e incarnata nella vita ecclesiale, nell'epoca del Regno di Dio che è già arrivato tra noi e domanda di essere sempre più ampiamente manifestato nella nostra vita.
    Probabilmente san Paolo vuol dir questo, quando scrive ai cristiani di Tessalonica: Il nostro vangelo non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione (1 Ts 1,5). E vuol forse dir questo anche san Giacomo, quando dice nella sua lettera che chi si limita ad ascoltare culturalmente la parola di Dio è come uno che si guarda nello specchio, ma poi si allontana restando come prima, senza far niente per mettersi in ordine e migliorare la sua personalità (cf. Gc 1,23.24).
    Noi cristiani non siamo il "popolo del libro" e neppure il "popolo della parola"; siamo il popolo dell'avvenimento, cioè il popolo che sa che la storia umana è stata radicalmente mutata dalla croce e dalla gloria del Signore; siamo il popolo che non si deve dar pace fino a che questa trasformazione non raggiunga l'intero universo; siamo il popolo che deve dar origine a una storia nuova e diversa.
    La nostra Chiesa deve perciò sì dedicarsi alla conoscenza sempre più vasta e alla comprensione sempre più profonda della Sacra Scrittura, anche più di quanto adesso non faccia. Ma non per fermarsi in questa conoscenza e in questa comprensione, bensì per trovarvi l'impulso continuo a costruire l'"uomo nuovo" e il "mondo nuovo"; quell'uomo e quel mondo nuovo che ha il suo inizio e il suo esemplare nel Cristo crocifisso e risorto.
    LA REALTA' DEL DEMONIO E LA LIBERAZIONE OPERATA DALLA PAROLA DI CRISTO
    Il secondo insegnamento di questa pagina evangelica riguarda il demonio. Anche tra i cristiani, ci sono a proposito del demonio opinioni infondate e aberranti: c'è chi non crede alla sua esistenza, e chi ne è addirittura ossessionato. Nessuno di questi due atteggiamenti spirituali è nel giusto, ci dice il Vangelo di oggi.
    Di fronte a questo essere oscuro e malefico, Gesù non fa il superuomo scettico, frivolo e irridente, ma lo prende sul serio. Lo ha già direttamente affrontato nell'episodio misterioso delle tentazioni del deserto. Sa che cercherà di sballottare i suoi apostoli come si fa col grano quando lo si deve vagliare (cf. Lc 22,31). Lo chiama "principe di questo mondo", ma dichiara anche che non ha alcun potere su di lui (cf. Gv 14,30).
    San Paolo ci ricorda che la lotta più aspra del credente - contrariamente a quello che oggi pensano molti anche fra i teologi - non è contro "la carne e il sangue" (cioè contro le strutture sociali, i pregiudizi inveterati o i complessi e i grovigli psicologici interni all'uomo), ma contro i dominatori di questo mondo di tenebra,... contro gli spiriti del male (Ef 6,12). Per questo la malvagità, la menzogna, gli accecamenti sono così estesi e imponenti nelle vicende umane: perché hanno una fonte sovrumana.
    E sarà meglio che noi, quando si tratta di ciò che c'è nel mondo invisibile, ci lasciamo guidare dal pensiero del Signore, più che dalle persuasioni presuntuose e immotivate dei maestri di questo mondo.
    D'altra parte, però, non dobbiamo essere di quelli che sembrano credere più al potere del diavolo che all'amore di Dio. Se dobbiamo prendere sul serio il demonio, non dobbiamo lasciarcene impaurire, dal momento che abbiamo un Salvatore capace di ridurlo al silenzio e di allontanarlo da noi. Taci! Esci da quell'uomo: Gesù ha pronunciato questa parola di liberazione non solo a Cafarnao, ma anche su ciascuno di noi al momento del nostro battesimo, quando siamo stati consacrati al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, e siamo entrati a far parte della divina famiglia.
    Come si vede, il Vangelo ci preserva tanto dalle false sicurezze di chi, non vedendo oltre la sua corta vista, presume di non avere avversari spirituali e di poter combattere da solo, quanto dalle angosce di chi si dimentica di essere stato redento e di essere perciò saldamente nelle mani di un Padre che non ha nessuna intenzione di lasciarci andare perduti.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7658

    OMELIA III DOMENICA T. ORD. - ANNO B (Mc 1,14-20) di Giacomo Biffi
    La pagina evangelica che è stata letta ci ha offerto soltanto pochi versetti del primo capitolo della narrazione di Marco. Ma in poche righe ci è stato richiamato quasi tutto ciò che è essenziale al nostro impegno di figli di Dio e di appartenenti al gregge del Signore.
    Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio (Mc 1,14). Tutto nell'evento cristiano comincia con un "annuncio", anzi con un "buon annuncio": un "evangelo".
    Il vangelo di Dio. È un annuncio che viene dall'alto. Per questo è "buono": dagli uomini è difficile aspettarsi delle notizie che davvero ci possano rallegrare. Notizie "dal basso" sono, per esempio, quelle che ascoltiamo dai telegiornali; e quasi mai sono notizie che ci incoraggino nel nostro mestiere di uomini e ci accrescano la voglia di vivere.
    Come si vede, la vita nuova, che siamo chiamati a vivere nella Chiesa, non prende inizio da un'analisi sociologica, né da un sondaggio di opinioni, né da una rassegna dei problemi e dei guai umani. Prende inizio dall'"evangelo di Dio", vale a dire, dalla stupefacente novità che c'è sopra di noi, ma a noi vicinissimo e anzi intimo, un Dio che si prende cura di noi e ci vuole bene. C'è sopra di noi - di là da quella che abbiamo sentito san Paolo chiamare la "scena di questo mondo" - un oceano di amore paterno, che è pronto a riversare sulla nostra povertà, sui nostri smarrimenti, sui nostri errori l'onda inesauribile della sua misericordia. Questo è l'annuncio, questo è il "vangelo di Dio".
    Il "vangelo di Dio", cioè la riscoperta del Padre, fonte decisiva di ogni speranza, è, dunque, il primo messaggio che ci viene trasmesso da Gesù all'inizio della sua vita pubblica. Egli è venuto tra noi appunto per rivelarci il Padre, per metterci a parte di questa fortuna inattesa che è ormai alla nostra portata. Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (Gv 1,18).
    Diceva:... Il regno di Dio è vicino (cf. Mc 1,15). Questa realtà salvifica, che ci viene annunziata, è un "regno": un "regno" che si è fatto vicino. Un "regno", che vuol dire: una potenza capace di rovesciare le sorti assurde e tragiche della stirpe di Adamo; una energia infusa nei cuori che si risolvono ad aprirsi, in modo che il male non possa più infiltrarsi e spadroneggiare dentro di noi; una vittoria della verità e della giustizia sulla menzogna e sulla iniquità: vittoria che è già in atto e aspetta solo di essere pienamente manifestata.
    Tutto ciò è il "vangelo", e noi siamo invitati ad accoglierlo nella fede: Credete, è la prima proposta vitale del Signore Gesù; Credete al vangelo (Mc 1,15).
    Senza questa nostra personale certezza che il regno di Dio è vicino (ibid.), noi restiamo ancora oppressi dal Principe di questo mondo (cf. Gv 12,31) e suoi prigionieri. Se invece cominciamo a "credere" sul serio, allora si delinea in noi la vittoria di Dio: Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede (1 Gv 5,4).
    L'URGENZA DI CONVERTIRSI
    Ma credere qui non vuol dire soltanto accettare intellettualisticamente come vera la grande notizia che ci è stata comunicata. Vuol dire anche questo; ma vuol dire soprattutto dischiuderci con ogni fibra del nostro essere alla luce e al fuoco dell'amore di Dio.
    Niente allora in noi, nei nostri pensieri, nei nostri affetti, nella nostra condotta può restare più come prima; niente deve rimanere nella vecchiezza, nella contaminazione, nella fragilità dell'uomo irredento. Tutto in questa fede deve essere trasfigurato. Perciò Gesù dice: Convertitevi e credete al vangelo (Mc 1,15). Convertitevi, cioè cambiate totalmente; o, meglio, lasciatevi cambiare totalmente, così che non ci sia più niente in voi che sia in contrasto con la realtà giovane e viva che vi viene donata.
    Convertirsi è ritrovare il Padre e la sua infinita misericordia. E come è inesauribile l'amore divino che perdona, inesauribile e incontentabile deve essere dentro di noi la volontà di adeguarci sempre di più alla sua santità.
    Il tempo è compiuto (Mc 1,15), ti dice Gesù. Non si tratta solo del tempo dei "segni" e delle "figure", che si è esaurito con la fine della missione di Giovanni il Battezzatore. Si tratta del tempo che è stato assegnato a ciascuno di noi: al momento stesso che l'annuncio definitivo della salvezza è arrivato alle nostre orecchie, è arrivata per noi l'ora di arrenderci alla grazia e di entrare con pienezza e senza indugio nell'avvenimento della redenzione.
    Se il tempo è compiuto, se l'amore di Dio si è fatto ormai incalzante e imminente sulla nostra esistenza, non ci possono essere più svogliatezze o rimandi.
    Se il tempo è compiuto, l'avverbio che conviene alla nostra risposta è "subito". E "subito" è anche, come avete sentito, la parola che contraddistingue la decisione dei primi chiamati: Subito... lo seguirono (cf. Mc 1,18).
    IL MINISTERO APOSTOLICO NEL DISEGNO DIVINO DI SALVEZZA
    Vi farò diventare pescatori di uomini (Mc 1,17). L'episodio riferito nel vangelo di Marco pone in risalto un altro elemento importante del disegno divino di salvezza, ed è l'assunzione di alcuni uomini a essere i ministri qualificati della predicazione e della grazia sacramentale nella Chiesa. È il "ministero apostolico", che per volere di Cristo dovrà animare, illuminare, dirigere la vita cristiana sino alla fine dei secoli.
    La vocazione di Andrea, Simone, Giacomo e Giovanni - come ci è stata qui raccontata - non è solo la vocazione "battesimale" di chi si pone come credente alla sequela dell'unico vero Maestro. È anche la vocazione "sacerdotale" di chi nella comunità ecclesiale sarà l'immagine viva e attiva di Gesù Capo, Sposo e Pastore.
    La "pesca" che qui viene compiuta da Gesù è "pesca di pescatori", cioè arruolamento di persone che in modo diretto ed eminente si dovranno fare carico di portare gli altri sulle strade del Regno. Vi farò pescatori di uomini (Mc 1,17).
    Essi non costituiranno mai una tribù a parte o una "casta", come nell'Antico Testamento i figli di Levi. Saranno di volta in volta presi dalla gente del popolo che ha un lavoro comune e una famiglia. Ma, per corrispondere adeguatamente alla loro missione, saranno collocati in una situazione "diversa": il loro lavoro a tempo pieno sarà l'impegno apostolico; la loro più autentica famiglia sarà la comunità cui saranno invitati. Perciò "lasciano le reti", come Simone e Andrea; e "lasciano il padre", come i figli di Zebedeo (cf. Mc 1,18.20).
    Di questi "pescatori di uomini" il popolo cristiano non può assolutamente far senza. Preghiamo allora perché il Signore assicuri sempre questo dono indispensabile alla nostra Chiesa.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7657

    OMELIA II DOMENICA T. ORD. - ANNO B (Gv 1,35-42)
    di Giacomo Biffi
    Uno dei rimproveri che la cultura contemporanea, più o meno consapevolmente, rivolge a Dio è quello di stare sempre zitto. Perché non parla? Perché non dice il suo parere sui fatti del mondo? Perché non interviene nei dibattiti che spesso oppongono tra loro perfino gli uomini della stessa fede? È un silenzio - vien fatto di pensare - che sembra quello di un morto. In realtà il rimprovero non è fondato. Prima di tutto perché Dio ha già parlato con la sua Rivelazione, che è culminata con la missione tra noi del Figlio suo, la sua Parola sostanziale che non cessa più di risonare. A questa Parola, che esprime tutto quanto è esprimibile della divinità, non ha più niente da aggiungere. Piuttosto adesso è il tempo della nostra risposta. E forse, reclamando l'intervento di Dio, vogliamo in fondo sfuggire all'impegno e alla responsabilità del rispondere a lui con la nostra preghiera, con la nostra riflessione, con la nostra condotta, con le nostre scelte, con la nostra vita. Press'a poco come ci è più facile e meno inquietante mettere sotto accusa la società, le "strutture", gli "altri", gli uomini del passato, la storia, che non mettere sotto accusa noi stessi nel segreto e nella verità dei nostri esami di coscienza. In secondo luogo, il rimprovero non è fondato perché il Signore parla ancora ai singoli, anzi li "chiama", cioè si propone a ciascuno di noi come l'interlocutore del dialogo più appassionato e più decisivo che possa avere un uomo, e come la mèta e la ragione di ogni singola esistenza umana. Le letture di oggi, presentandoci delle "chiamate" (quella antica di Samuele, e poi quella di Andrea, di Giovanni, di Pietro), ci invitano a riflettere sulla nostra vocazione. Ciascuno di noi ha la sua vocazione, ed è la cosa più importante che abbia. Perché il senso e il valore di un uomo non consistono in quello che lui pensa di se stesso nel tempo, ma in quello che Dio ha pensato di lui nell'eternità. Le chiamate del Signore hanno alcune caratteristiche, che mette conto di considerare. - Sono di solito "discrete": nel silenzio notturno, come per Samuele; o nell'aria immobile e assorta di un afoso pomeriggio palestinese, come per Andrea. Perciò molti non le sentono (e poi magari si lamentano del silenzio di Dio): il tumulto dei sensi, o lo stridere dei rancori, o anche semplicemente il vivere distratti, senza mai un momento di silenzio interiore, impediscono che la voce del Dio che chiama arrivi fino al cuore dell'uomo. - Le chiamate di Dio di solito sono all'inizio timide e quasi esitanti. Aspettano il principio di una risposta prima di farsi più chiare e più forti. Che cercate?, dice Gesù ai due che lo seguono; e attende, prima di proseguire, che siano loro a esprimere il desiderio di entrare in un rapporto più vivo. Samuele!, chiama Dio nella notte, e non prosegue a parlare fino a che il ragazzo non risponde, dichiarando esplicitamente di essere pronto e disposto ad ascoltare. - Quando però dispiegano tutta la loro intrinseca energia, le chiamate di Dio sono trasformanti: Samuele diventa un capo (acquistò autorità); Andrea diventa un apostolo; Simone diventa "Pietro", cioè la roccia su cui poggia tutta la Chiesa di Cristo. L'augurio da fare a noi stessi, e la grazia da chiedere a questo punto, è che si avveri anche per noi quanto è scritto di Samuele: Il Signore non lasciò andare a vuoto una sola delle parole che gli aveva detto.
    IL PROGETTO D'AMORE SU CIASCUNO DI NOI DETERMINA IL SENSO DELLA NOSTRA VITA
    Il progetto d'amore su ciascuno di noi determina il senso della nostra vita. Nella pagina che abbiamo ascoltato (e in genere nella narrazione dei primi tre giorni di vita pubblica di Gesù) il quarto Evangelo raccoglie tutto il tema della vocazione (che nei primi tre Evangeli si trova distribuito in vari punti), così come raccoglierà nella "sezione pasquale" tutto il tema della missione. E non appare tanto, come nei sinottici, "vocazione all'apostolato", quanto "vocazione alla sequela di Cristo". Su questo argomento, che vale per tutti gli uomini e acquista una particolare intensità nella vita di speciale consacrazione, fissiamo alcune essenziali considerazioni.
    Su di noi c'è una "vocazione". Qui c'è la prima connotazione, che determina tutto l'orientamento della vita: la persuasione che la scelta fondamentale sta tra il voler ritenere che su di noi c'è il silenzio di un universo vuoto (e quindi l'esistenza è l'assurdità di un camminare senza mèta) e il convincersi che su ciascuno di noi c'è una voce che chiama per nome.
    La chiamata implica che su di noi ci sia anche un "disegno". E questa è la seconda persuasione: la scelta fondamentale sta tra il voler ritenere che alle nostre spalle ci sia il caso (e allora è logico vivere "a caso", ed è inutile e insignificante ogni impegno) e il convincersi che alle nostre spalle c'è un progetto d'amore. Badate: non solo un progetto generale che vale per tutti gli uomini, ma un progetto particolare e specifico, che è stato pensato e voluto per me.
    L'esistenza di un "disegno" implica che il senso vero e la realizzazione di una vita stia nell'obbedienza al disegno. Va notato a questo punto l'irriducibile contrasto che c'è tra il Vangelo e la "mitologia" corrente e imperante, per la quale il senso e la realizzazione della vita sta nella "libertà", cioè nel fare ciò che si vuole ed essere svincolati da ogni superiore progetto. Anche nel cristianesimo la "libertà" è un grande ed essenziale valore, purché sia intesa non come la condizione astratta e vuota di contenuti di chi non ha impegni con nessuno, ma come la positiva ricchezza di chi si rende capace di rispondere per amore (non per costrizione, non per convenzionalità, non per inerzia) al disegno d'amore del Padre, che ci è rivelato nella parola, nei gesti, nella personalità di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, dal segreto lavoro dentro di noi dello Spirito Santo. Andrea dice: Abbiamo trovato il Messia. Anche noi "abbiamo trovato". Abbiamo trovato in Cristo il senso vero di tutto l'universo, che è di essere il frutto di un atto eterno d'amore e di possedere una "chiamata" come molla e guida della sua storia; abbiamo trovato il senso vero della nostra vita, che è di essere una obbedienza a questa "chiamata" e a questo eterno atto d'amore.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7594

    OMELIA XXXIII DOM. T. ORD. - ANNO A (Mt 25,14-30) di Giacomo Biffi
    Questo è un momento di grazia; noi ci troviamo riuniti attorno all'altare del Signore come figli che aspettano dal padre la loro porzione di cibo. E il Signore ce la dispensa con puntualità, perché sa che senza il suo nutrimento nessuno di noi riesce a sopravvivere, senza l'alimento della sua parola nessuno ha più motivi per continuare a sperare, senza il pane sostanzioso della sua verità nessuno di noi si regge in questo faticoso pellegrinaggio della vita. Ed è un momento di gioia, perché poche cose sono belle e dolci come il ritrovarsi insieme dei fratelli che, allontanata ogni ragione di ansia e di tristezza, si espongono al caldo sole dell'amore di Dio. Oggi, ancora una volta, il Signore Gesù ci propone i suoi insegnamenti vitali sotto le vesti pittoresche di una parabola, nella concretezza eloquente di un racconto: la verità ci è offerta incarnata ed espressa in un episodio di vita. Ed è anche questo un magistero: è l'invito a imparare a leggere in ogni semplice fatto, in ogni situazione, in ogni creatura nella quale ci imbattiamo l'eterna sapienza di Dio che dà senso e gusto a tutte le cose e di tutte si serve per metterci in comunione con la sua verità. L'episodio è quello di un ricco che, dovendo partire e prevedendo una lunga assenza, non vuole che il suo capitale resti infruttifero e perciò lo distribuisce tra alcuni suoi amministratori perché si diano da fare a farlo rendere. La distribuzione è diseguale: il padrone conosce la diversa capacità dei suoi servi e riparte il suo denaro in modo da correre i minori rischi possibili. E difatti i primi due sono abili e attivi, tanto da riuscire a raddoppiare la somma; il terzo invece è pigro, privo di iniziativa, inutilmente pauroso, e non riesce ad assicurare reddito alcuno. E in più è convinto di essere nel giusto, di aver agito con oculata prudenza e quindi di meritare gratitudine e apprezzamento. Il padrone invece lo punisce duramente, mentre riserva un'altissima ricompensa a quelli che l'hanno servito bene. Il messaggio contenuto in questa parabola è agevole da scoprire e ci offre una serie di certezze decisive per il buon uso della nostra vita. Nella prospettiva dell'ultimo incontro col Signore Gesù, che verrà un giorno a porre finalmente i sigilli alla vicenda ingarbugliata e tragica della storia umana, questa pagina evangelica ci sollecita a riflettere sul tempo che ci è dato e a trovare in esso un dono, un invito all'impegno operoso, una preparazione al rendiconto.
    NULLA CI APPARTIENE PERCHE' TUTTO E' DONO
    Tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è un dono. Tutto è stato ricevuto (intelligenza, affettività, salute, carattere, abilità, doti di comunicazione); tutto ciò che costituisce la nostra personalità è un regalo di Dio. Basta questo pensiero a ridimensionare ogni considerazione troppo orgogliosa o vanitosa e ogni pensiero depresso e scoraggiato. Non possiamo insuperbirci perché non abbiamo niente di nostro; e non dobbiamo avvilirci, perché ciascuno di noi è un'opera mirabile del Creatore, e ogni tristezza è un disconoscimento di quanto sia nobile e prezioso ciò che ci è stato donato. Come il padrone della parabola, Dio non fa mai agli uomini delle elargizioni uguali. Ciascuno è un caso a sé; ciascuno ha le sue ricchezze e le sue povertà, i suoi limiti e le sue qualità. È inutile perciò guardarsi intorno e confrontarsi: ogni paragone è impossibile e ogni giudizio rischia di essere ingiusto. Ciascuno di noi è solo di fronte al suo Dio; e non ha tanto importanza l'entità dei regali con cui è cominciata la nostra avventura terrestre, quanto l'impegno con cui ci si è dati da fare.
    L'OMISSIONE, LA PIU' INSIDIOSA DELLE COLPE
    L'impegno è però indispensabile. Gesù nella parabola condanna l'atteggiamento di chi si limita a evitare le perdite; cioè l'atteggiamento di chi si crede a posto con la propria coscienza e con Dio, perché non ha fatto niente di male. Chi si preoccupa solo di evitare il male, alla fine verrà condannato, perché non ha schivato la più insidiosa delle colpe, la colpa di omissione, che è la più pericolosa di tutte, perché di solito non lascia rimorsi. Sicché siamo invitati tutti a perfezionare i nostri esami di coscienza: a domandarci non soltanto se ci sono degli errori e delle macchie, ma anche a chiederci che cosa di bene positivamente abbiamo fatto. E il bene, secondo l'insegnamento evangelico, sta tanto nella coscienza, nell'amore, nella lode di Dio, quanto nell'aiuto, nell'interessamento fattivo, nella simpatia offerta ai nostri fratelli.
    IL RENDICONTO FINALE
    Infine in questa pagina di Vangelo c'è l'idea del rendiconto. Un'idea che ritorna frequentemente nei discorsi del Signore, e che è fondamentale nella visione cristiana. Un uomo che dica (e quante volte abbiamo tutti la tentazione di dirlo): "Io non devo rendere conto a nessuno", è un uomo molto lontano dalla parola di Cristo e dalla verità delle cose. Tutti i servi, a uno a uno, sono chiamati dal padrone, appena ritorna; tutti, ricchi o poveri, intelligenti o ritardati, potenti o deboli, prepotenti o miti, fortunati o sfortunati, tutti alla fine incontriamo un giudizio. E quello sarà veramente il momento della giustizia, alla quale ogni cuore d'uomo aspira invincibilmente. Ed è l'unico momento della giustizia del quale il Signore ci ha parlato e del quale ci ha dato precise e invincibili garanzie. Se lasciamo impallidire dentro di noi il pensiero di questo giudizio o lo lasciamo sottinteso e inoperante nella nostra coscienza, non siamo veri discepoli del Signore. Domandiamo la grazia di saper vivere in questa attesa vigilante e operosa, perché possiamo ascoltare anche noi la parola consolante, che ci ripagherà di ogni afflizione: Prendi parte alla gioia del tuo padrone. Noi siamo fatti per la gioia, ed è un destino di gioia eterna e sovrumana, quello che il Signore ci assicura per una esistenza che è stata veramente spesa per lui.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7578

    OMELIA XXXI DOM. TEMPO O. - ANNO A (Mt 23,1-12) di Giacomo Biffi
    Il brano evangelico che abbiamo ascoltato offre alla nostra meditazione una parte dell'invettiva aspra e impietosa, pronunciata da Gesù senza ireniche attenuazioni all'indirizzo dei capi religiosi del suo popolo, indicati nelle due categorie emergenti degli "scribi" (i commentatori della Sacra Scrittura) e dei "farisei", che erano i rigidi osservanti delle prescrizioni legali. In sostanza, egli li accusa di incoerenza, di vanità, di oppressione culturale verso i più deboli e sprovveduti. La veemenza di questa requisitoria spiega come mai la tensione tra il profeta di Nazaret e le autorità giudaiche abbia potuto risolversi, appena qualche giorno dopo questo discorso, con la tragedia di una condanna a morte.
    OGNI AUTORITA' E' STATA DATA IN VISTA DI UN SERVIZIO
    Le parole del Salvatore sono un invito a un accurato esame di coscienza soprattutto per coloro che esercitano qualche autorità, anche legittima; e prima di tutto per coloro che all'interno della comunità cristiana sono investiti di qualche ministero. Essi si devono ricordare che nel cristianesimo non ci sono né re né padroni che siano tali nel significato che queste qualifiche assumevano nell'antica mentalità pagana: da quando è stato annunziato il Vangelo ed è stata celebrata la Pasqua liberatrice del sacrificio di Cristo, non è più ammessa, propriamente parlando, nessuna autorità di un uomo sugli altri uomini, se non in loro servizio. Vale a dire: più che di comando, si deve parlare di missione; più che di sovranità, si deve parlare di sollecitudine per il bene altrui. Questa prospettiva davvero rivoluzionaria vale per tutti: tutti ci dobbiamo lasciar mettere in crisi da questo insegnamento del Signore, perché la tentazione di dominare, di imporre la propria volontà, di atteggiarsi a condottieri, senza aver ricevuto nessun mandato, può insidiare ogni persona sia pure nell'ambito di una ristretta vita associata. Spesso, anzi, càpita che proprio all'interno dei gruppi che contestano ogni disciplina, anche la più doverosa, e disconoscono ogni presenza direttiva, anche la più necessaria, si facciano più pesanti e oppressive, da parte di qualcuno, le tirannie dello spirito e le intimidazioni ideologiche. Ci sono poi dei padri e delle madri che si proclamano fieri assertori della libertà dell'uomo contro tutti i condizionamenti e le ingerenze, e poi contrastano accanitamente la decisione dei figli anche adulti di scegliere la vita religiosa. Comunque, come ogni esame di coscienza che si rispetti, anche questo va compiuto lealmente e spregiudicatamente nel segreto del cuore, perché ciascuno di noi ha, nella sua piccola esistenza concreta, qualche prevaricazione di cui si deve correggere e qualche istinto di prepotenza da cui si deve guardare.
    LA QUALIFICA DI "PADRE" E DI "MAESTRO"
    In questo brano del Vangelo di Matteo Gesù ci rivolge inoltre due raccomandazioni molto concrete e precise. Prima raccomandazione: Non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo (Mt 23,9). E vuol dire: guardate che il titolo di "padre" è il più alto che si possa attribuire; dunque non lo dovete mai banalizzare. Nel senso più intenso e più vero conviene soltanto a Dio, che è la fonte totale di ogni essere; in forma subordinata conviene anche all'uomo che Dio, secondo il suo misterioso disegno, associa a sé nell'azione creatrice facendolo comprincipio di una nuova esistenza. Ognuno di noi ha dunque un solo padre in cielo e un solo padre in terra. Nel contesto dell'esperienza religiosa ed ecclesiale possiamo sì assegnare a qualcun altro questo appellativo sublime, ma solo se con ciò intendiamo con sincerità riconoscere che l'uomo onorato con questo nome è stato ed è strumento della grazia con cui Dio ha acceso e ha sviluppato in noi la sua stessa vita. In tal caso il titolo deve essere carico di rispetto, di amore, di gratitudine; diversamente l'uso del termine è quanto di più antievangelico si possa pensare. Seconda raccomandazione: Non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo (Mt 23,10). Maestro non è chi comunica soltanto delle nozioni; tanto meno è maestro chi propone delle falsità. Maestro è colui che insegna il vero a proposito delle questioni che davvero importano per il destino dell'uomo. In questo senso soltanto a Gesù può essere riconosciuta questa qualifica, e a coloro che insegnano a suo nome e per sua autorità. Come lui stesso ha detto degli apostoli (e dunque dei loro successori): Chi ascolta voi, ascolta me (Lc 10,16).
    Questa frase di Gesù contiene tre concetti ugualmente preziosi.
    1. Il maestro è Cristo: quindi nessuno di noi è maestro a sé stesso. Proprio perché l'orgoglioso attaccamento al nostro personale modo di sentire non intralci il nostro cammino verso la verità, dobbiamo mantenerci di fronte a Gesù nell'atteggiamento docile di chi vuole imparare. Sulle questioni religiose e morali non ha molto senso ripetere, come se fosse una sentenza definitiva: "Io la penso così"; dobbiamo sempre ricercare che cosa oggettivamente ne pensi il Maestro.
    2. Cristo è il solo maestro. Appunto perché il Maestro vero è unico, noi sappiamo come salvarci dalla molteplicità disorientante dei pareri e dalla confusione delle idee: ricorrendo con semplicità alla sua parola. Così non ci lasceremo troppo incantare dai maestri abusivi che dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi pretendono di guidare le coscienze dei loro fratelli.
    3. Cristo è il maestro nostro, cioè mandato apposta per noi dalla misericordia del Padre, perché lo scoraggiamento e lo scetticismo non ci paralizzasse nella esplorazione di ciò che è giusto e vero.
    In conclusione, nella grande famiglia della Chiesa ognuno di noi deve preoccuparsi più di imparare che di insegnare, più di ascoltare che di parlare, più di aprirsi alla luce evangelica che di dar giudizi, perché, quale che sia la nostra cultura e la nostra posizione, noi tutti restiamo sempre discepoli dell'unico vero Maestro.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7578

    OMELIA XXXI DOM. TEMPO O. - ANNO A (Mt 23,1-12)
    Il più grande tra voi sia vostro servo

    di Giacomo Biffi
    Il brano evangelico che abbiamo ascoltato offre alla nostra meditazione una parte dell'invettiva aspra e impietosa, pronunciata da Gesù senza ireniche attenuazioni all'indirizzo dei capi religiosi del suo popolo, indicati nelle due categorie emergenti degli "scribi" (i commentatori della Sacra Scrittura) e dei "farisei", che erano i rigidi osservanti delle prescrizioni legali. In sostanza, egli li accusa di incoerenza, di vanità, di oppressione culturale verso i più deboli e sprovveduti. La veemenza di questa requisitoria spiega come mai la tensione tra il profeta di Nazaret e le autorità giudaiche abbia potuto risolversi, appena qualche giorno dopo questo discorso, con la tragedia di una condanna a morte.

    OGNI AUTORITA' E' STATA DATA IN VISTA DI UN SERVIZIO
    Le parole del Salvatore sono un invito a un accurato esame di coscienza soprattutto per coloro che esercitano qualche autorità, anche legittima; e prima di tutto per coloro che all'interno della comunità cristiana sono investiti di qualche ministero. Essi si devono ricordare che nel cristianesimo non ci sono né re né padroni che siano tali nel significato che queste qualifiche assumevano nell'antica mentalità pagana: da quando è stato annunziato il Vangelo ed è stata celebrata la Pasqua liberatrice del sacrificio di Cristo, non è più ammessa, propriamente parlando, nessuna autorità di un uomo sugli altri uomini, se non in loro servizio. Vale a dire: più che di comando, si deve parlare di missione; più che di sovranità, si deve parlare di sollecitudine per il bene altrui. Questa prospettiva davvero rivoluzionaria vale per tutti: tutti ci dobbiamo lasciar mettere in crisi da questo insegnamento del Signore, perché la tentazione di dominare, di imporre la propria volontà, di atteggiarsi a condottieri, senza aver ricevuto nessun mandato, può insidiare ogni persona sia pure nell'ambito di una ristretta vita associata. Spesso, anzi, càpita che proprio all'interno dei gruppi che contestano ogni disciplina, anche la più doverosa, e disconoscono ogni presenza direttiva, anche la più necessaria, si facciano più pesanti e oppressive, da parte di qualcuno, le tirannie dello spirito e le intimidazioni ideologiche. Ci sono poi dei padri e delle madri che si proclamano fieri assertori della libertà dell'uomo contro tutti i condizionamenti e le ingerenze, e poi contrastano accanitamente la decisione dei figli anche adulti di scegliere la vita religiosa. Comunque, come ogni esame di coscienza che si rispetti, anche questo va compiuto lealmente e spregiudicatamente nel segreto del cuore, perché ciascuno di noi ha, nella sua piccola esistenza concreta, qualche prevaricazione di cui si deve correggere e qualche istinto di prepotenza da cui si deve guardare.

    LA QUALIFICA DI "PADRE" E DI "MAESTRO"
    In questo brano del Vangelo di Matteo Gesù ci rivolge inoltre due raccomandazioni molto concrete e precise. Prima raccomandazione: Non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo (Mt 23,9). E vuol dire: guardate che il titolo di "padre" è il più alto che si possa attribuire; dunque non lo dovete mai banalizzare. Nel senso più intenso e più vero conviene soltanto a Dio, che è la fonte totale di ogni essere; in forma subordinata conviene anche all'uomo che Dio, secondo il suo misterioso disegno, associa a sé nell'azione creatrice facendolo comprincipio di una nuova esistenza. Ognuno di noi ha dunque un solo padre in cielo e un solo padre in terra. Nel contesto dell'esperienza religiosa ed ecclesiale possiamo sì assegnare a qualcun altro questo appellativo sublime, ma solo se con ciò intendiamo con sincerità riconoscere che l'uomo onorato con questo nome è stato ed è strumento della grazia con cui Dio ha acceso e ha sviluppato in noi la sua stessa vita. In tal caso il titolo deve essere carico di rispetto, di amore, di gratitudine; diversamente l'uso del termine è quanto di più antievangelico si possa pensare. Seconda raccomandazione: Non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo (Mt 23,10). Maestro non è chi comunica soltanto delle nozioni; tanto meno è maestro chi propone delle falsità. Maestro è colui che insegna il vero a proposito delle questioni che davvero importano per il destino dell'uomo. In questo senso soltanto a Gesù può essere riconosciuta questa qualifica, e a coloro che insegnano a suo nome e per sua autorità. Come lui stesso ha detto degli apostoli (e dunque dei loro successori): Chi ascolta voi, ascolta me (Lc 10,16).
    Questa frase di Gesù contiene tre concetti ugualmente preziosi.
    1. Il maestro è Cristo: quindi nessuno di noi è maestro a sé stesso. Proprio perché l'orgoglioso attaccamento al nostro personale modo di sentire non intralci il nostro cammino verso la verità, dobbiamo mantenerci di fronte a Gesù nell'atteggiamento docile di chi vuole imparare. Sulle questioni religiose e morali non ha molto senso ripetere, come se fosse una sentenza definitiva: "Io la penso così"; dobbiamo sempre ricercare che cosa oggettivamente ne pensi il Maestro.
    2. Cristo è il solo maestro. Appunto perché il Maestro vero è unico, noi sappiamo come salvarci dalla molteplicità disorientante dei pareri e dalla confusione delle idee: ricorrendo con semplicità alla sua parola. Così non ci lasceremo troppo incantare dai maestri abusivi che dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi pretendono di guidare le coscienze dei loro fratelli.
    3. Cristo è il maestro nostro, cioè mandato apposta per noi dalla misericordia del Padre, perché lo scoraggiamento e lo scetticismo non ci paralizzasse nella esplorazione di ciò che è giusto e vero.
    In conclusione, nella grande famiglia della Chiesa ognuno di noi deve preoccuparsi più di imparare che di insegnare, più di ascoltare che di parlare, più di aprirsi alla luce evangelica che di dar giudizi, perché, quale che sia la nostra cultura e la nostra posizione, noi tutti restiamo sempre discepoli dell'unico vero Maestro.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7577

    OMELIA XXX DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 22,34-40) di Giacomo Biffi
    Accese discussioni con i vari gruppi religiosi ebraici e insidiose interpellanze da parte di agguerriti dottori della legge hanno contraddistinto gli ultimi giorni della vita terrena del Signore Gesù, costituendo quasi le naturali premesse all'esplosione di odio che doveva portare alla sua uccisione sul Calvario. La scorsa domenica abbiamo visto la questione del tributo a Cesare; in questa domenica, sempre sulla scorta del Vangelo di Matteo, veniamo a conoscere un altro interrogativo che al Maestro è stato proposto dai farisei, e ancora con la malafede di chi non ricerca la verità ma vuol tendere dei tranelli: Per metterlo alla prova. Stavolta Gesù viene sollecitato a rispondere su un classico problema della teologia rabbinica: di tutta la serie interminabile dei precetti di Mosè, qual è il comandamento più importante e meglio ricompensato? Non c'era niente di insolito o di particolarmente originale nella domanda. Ma se la questione era convenzionale, la risposta di Cristo è senza dubbio un colpo d'ala, che ci trasporta alle massime altezze della riflessione religiosa. Poche parole nella storia umana hanno avuto una rilevanza e un'incisività paragonabile a quella della frase pronunciata da Gesù in questa occasione: Amerai il Signore Dio tuo... Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Nel comando dell'amore Gesù individua non solo il punto più elevato, ma anche l'anima e l'ispirazione di tutta la religione. Da esso, egli afferma, dipende tutta la legge e i profeti.
    LA FEDE AUTENTICA POSSIEDE LO SLANCIO DI UN INNAMORAMENTO
    La religione non prescrive prima di tutto e sopra tutto: Non fare, oppure: Fa'. Prima di tutto e sopra tutto dice: Amerai. Senza dubbio delle proibizioni e dei comandi positivi specifici hanno un giusto posto nella legge di Dio. Ma non costituiscono l'elemento primario, lo spirito, il vertice del nostro rapporto personale col Signore. La religione, prima e più che in un patrimonio di idee, di usi, di precetti, di opere buone, risiede nel cuore. La fede, nella sua autenticità, prima di ogni altra cosa, è una specie di innamoramento, e possiede tutto lo slancio, l'insaziabilità, il desiderio non mai placato di superarsi, che è proprio di un essere raggiunto e dominato dall'amore. Chi nella vita religiosa punta al minimo (per esempio: evitare le colpe più gravi, arrivare a messa il più tardi possibile, occuparsi delle pene altrui nella misura minima e meno impegnata), o anche solo si contenta di quello che egli è (senza nessuna ansia di crescere e di migliorare) contraddice la logica dell'amore, che vuole dare sempre di più, e misconosce la realtà profonda del suo rapporto con Dio.
    LA GELOSIA DI UN DIO CHE CHIEDE A NOI IL NOSTRO "TUTTO"
    Con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Tre volte la parola "tutto" ritorna in questa breve frase di Cristo: un'insistenza quasi ossessiva, che racchiude una fondamentale verità. La misura che conviene al Dio che è l'Infinito e l'Eterno, è quella espressa dalla parola "tutto" e dalla parola "sempre"; che sono poi anche i termini preferiti dal linguaggio dell'amore, quando non è inquinato dalle mode ideologiche e culturali. L'amore di un Dio, che è l'unico, è esigente. È un Dio "geloso", ci dice con vocabolo pittoresco la Sacra Scrittura. Non vuole comproprietà nel nostro cuore, non accetta compromessi nella fedeltà a lui, non tollera di dividerci con altri che non possano essere visti a giusto titolo come presenze e incarnazioni legittime della sua amabilità. Non è facile per noi vivere in conformità a questo principio. A noi piace mercanteggiare; cerchiamo sempre le strade intermedie; abbiamo paura di ciò che è totale e definitivo. Noi possiamo arrivare fino a dare "tanto", purché non sia "tutto". Dio invece si accontenta anche del nostro "poco", purché sia "tutto": tutto quello che abbiamo e tutto quello che siamo. Così si spiegano le nostre quotidiane incoerenze, che Dio pazientemente sopporta, purché non ne facciamo una regola accettata e indiscutibile di vita, purché ogni giorno tentiamo e ritentiamo di superarle e arrivare all'integralità della nostra donazione. Nessuno dunque si illuda che sia facile essere sul serio "cristiani", cioè discepoli di Cristo che vuole tutto per sé. D'altra parte nessuno, dall'amara esperienza delle sue spirituali avarizie, deve concludere che essere cristiani sul serio è impossibile. Quel Dio, che è esigente e totalitario, è anche tollerante e misericordioso: ci prende come siamo, purché veda in noi l'aspirazione sincera a diventare come lui ci vuole.
    L'INSCINDIBILITÀ DELL'AMORE DI DIO E DELL'AMORE DEL PROSSIMO
    Amerai il Signore... Amerai il prossimo. L'amore di Dio e l'amore del prossimo sono da Gesù presentati come strettamente connessi tra loro: sono i due volti di un'unica carità. Perciò non si possono separare e tanto meno si possono porre tra loro in contrasto. Non si tratta di scegliere tra l'uno e l'altro. Si tratta piuttosto di fare del primo il necessario fondamento del secondo, e del secondo l'immancabile manifestazione del primo. Chi li contrappone e dice: "Piuttosto che pregare Dio e andare in chiesa, è meglio far del bene agli altri", oppure dice: "Piuttosto che occuparsi degli altri e immischiarsi nella vita sociale, è preferibile adorare il Signore, meditare sulla sua parola, celebrare la sua liturgia", li ha già violati tutti e due. La parola "piuttosto" qui diventa segno di un sostanziale travisamento della prima legge del Vangelo. D'altronde, se non si pensa a Dio da amare con tutte le forze, l'amore per gli uomini non ha nessuna giustificazione. Perché dovremmo amarli (dal momento che spesso non sono né amabili né giusti verso di noi), se non avessimo la persuasione che tutti siamo legati dall'affetto doveroso verso il Padre comune? E reciprocamente, come si potrà salvare dalla vuotezza, dalla sterilità, dall'illusione il nostro amore per Dio, se non tentiamo di attualizzarlo e di renderlo operativo nell'amore per gli uomini, che sono sempre e tutti immagini vive di Dio? I pericoli, come sempre, stanno su ambedue i versanti. C'è il pericolo di fare della ricerca e del culto di Dio una scusa per stare lontano dai problemi dei nostri fratelli, e c'è il pericolo di presentare come interessamento concreto per gli altri e passione per la giustizia terrena ciò che in fondo è soltanto uno spaventoso disinteresse nei confronti di Dio, una squallida incapacità di amare, una ribellione a prendere la volontà del Padre che è nei cieli come norma assoluta della nostra vita. Possiamo concludere dicendo che essere discepoli di Gesù significa semplicemente saper amare: saper amare Dio nei suoi figli, saper amare gli altri partecipando allo stesso amore paterno che Dio ha per loro.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7572

    OMELIA XXIX DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 22,15-21) di Giacomo Biffi
    Si deve o non si deve pagare le tasse ai Romani? Questa era davvero, per gli Ebrei dei tempi di Cristo, una questione scottante. Evocava anche un problema generale di comportamento di fronte all'occupazione straniera: bisognava realisticamente accettare il dominio di Roma o si doveva organizzare la resistenza e la ribellione? Era per molti un caso di coscienza. Il caso viene sottoposto a Gesù, in termini che fanno appello, oltre che alla sua sapienza, alla sua schiettezza, alla sua libertà di spirito, alla sua imparzialità, alla sua passione per la giustizia: Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Era difficile riconoscere in modo più esplicito e lusinghiero l'autorità morale e la dirittura di carattere del giovane profeta di Nazaret. Ma non era un elogio fatto in buona fede. È interessante notare che, per formulare l'arduo quesito, si erano messi insieme e accordati tra loro due gruppi di persone che normalmente vivevano in reciproca ostilità: i farisei (conservatori e nazionalisti) e gli erodiani (che accettavano la politica spregiudicata e collaborazionista del re). Gesù, dando subito un bell'esempio della franchezza che gli era stata lodata, smaschera le loro cattive intenzioni, chiamandoli senza tanti complimenti "ipocriti": Ipocriti, perché mi tentate? Tuttavia non sfugge al problema. Anche se conosce la loro malizia e il loro desiderio di metterlo negli impicci, acconsente a rispondere. Il rischio era grave: si trattava o di lasciarsi coinvolgere delle beghe politiche (tradendo così la sua missione tipicamente religiosa) o di invitare la gente a pagare le tasse (perdendo così tutta la sua popolarità). Questa, di pagare le tasse, è una cosa che non si è mai fatta volentieri in nessun tempo e in nessun paese. Un predicatore che invita la gente a pagare le tasse, è destinato a un sicuro insuccesso. Qui però l'insidia era ancora più grave. L'interrogativo: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?, nella sostanza voleva dire: "Ti rassegni alla dominazione straniera o ti decidi a combatterla come ingiusta?". Farisei ed erodiani sembrano dirgli: "Discendi un po' dalle altezze, lascia stare gli argomenti dei quali tu parli così spesso e che a noi interessano così poco (come il Regno di Dio, il Padre, il giudizio, l'amore del prossimo), e òccupati delle questioni vive del tuo tempo e del tuo popolo. Non evadere dalla morsa dei problemi terrestri, non rifugiarti sempre nella tranquillità alienante della prospettiva religiosa: rispondi, impégnati, compromettiti". Gesù risponde, ma non si impegna nel campo politico. Risponde, ma non si compromette in una contestazione attiva della prepotenza di Roma. Risponde, ma non propone affatto l'obiezione fiscale. Non dice: "Detrai dal tuo pagamento quanto prevedi che andrà a finire ad acquistare le armi dell'oppressore" (come forse a qualche cristiano dei nostri giorni piacerebbe che avesse risposto). Dice: "Se accettate per i vostri traffici e per i vostri guadagni la moneta dell'imperatore, voi riconoscete all'imperatore l'autorità di gestire la cosa pubblica, e quindi anche il suo diritto a raccogliere i tributi". Ma sottolinea subito - l'autorità politica non è illimitata: è circoscritta dall'autorità prevalente di Dio. E arriva in tal modo ad enunciare un principio fondamentale, che costituisce la fonte della vera liberazione dell'uomo da ogni possibile prevaricazione del potere e da ogni tirannide.

    L'INVIOLABILITÀ DELLA COSCIENZA DI FRONTE AD OGNI AUTORITA' MONDANA
    Lo Stato antico era sempre totalitario: disponeva di tutto l'uomo, perfino della sua vita religiosa. Anche gli atti di culto erano regolati dalle leggi ed erano funzionali all'azione e ai progetti dello Stato. È una inclinazione che rispunta sempre tra gli uomini politici. Molti di essi sono persuasi di poter stabilire loro che cosa sia giusto e che cosa non sia giusto in faccia a Dio; che cosa si debba e che cosa non si debba fare per essere coerenti con le verità della fede; che cosa possano e che cosa non possano dire coloro che hanno ricevuto la missione di guidare il popolo dei credenti. Contro questa sempre rinascente tendenza, Gesù afferma la necessità di fare spazio a Dio e di dargli un posto che non può non essere il primo e il prevalente. E tale affermazione diventa premessa di salvezza dell'uomo di fronte a ogni esorbitanza dei potenti. Egli insegna: alle autorità terrene dovete tutto e solo quello che compete a loro. Nessun organismo dello Stato, nessuna forza politica, nessun partito può pretendere ciò che appartiene soltanto a noi come persone (alle quali anche lo Stato è finalizzato) e a Dio, come Signore dell'universo. Nessun organismo dello Stato, nessuna forza politica, nessun partito può impadronirsi della vostra anima o manipolarla, può interferire nelle vostre convinzioni morali, può imporvi una sua concezione del mondo: Date a Cesare quel che è di Cesare, ma niente di più. Come si vede, il Vangelo non insegna affatto la rivoluzione o la contestazione del sistema; al contrario, predica la lealtà e l'obbedienza verso l'autorità, le sue leggi e le sue decisioni. Ma impone a qualunque autorità mondana (statale, governativa, partitica, sindacale) di non oltrepassare il suo campo specifico, che è tutto racchiuso nell'ambito del bene terreno, e non può toccare la sfera sacra della coscienza, la quale può essere illuminata solo dalla luce che viene dall'alto. E nell'ottica cristiana l'ambito del bene terreno è molto ristretto e non è mai primeggiante, perché ciò che conta davvero per l'uomo è il rapporto col Padre che è nei cieli, è l'avvento del Regno di Dio, è la vita eterna; e alla luce di questi valori tutto va giudicato. Nessun ambito dell'esistenza deve rimanere estraneo a Dio. Ciò che sta a cuore a Gesù, ciò che è lo scopo vero del suo insegnamento, ciò che è il senso profondo dell'episodio, riferitoci dalla pagina evangelica che abbiamo ascoltato, è l'ultima frase: Date a Dio quel che è di Dio, cioè tutto. Poiché Dio è il Creatore e il Signore di tutto, tutto a lui in definitiva deve essere rapportato. Non c'è angolo dell'esistenza, non c'è attività umana, da cui il Creatore di tutte le cose possa essere legittimamente estromesso. Niente di quello che l'uomo fa o dice o pensa, è indifferente alla sua essenziale indole religiosa. Tutto - anche il necessario impegno terrestre, nei suoi vari settori e nei suoi vari momenti - deve essere compiuto intenzionalmente per Dio e in oggettiva conformità al suo volere. Poiché tutto proviene da Dio, tutto a Dio deve essere riferito e ricondotto, nell'affetto sincero del cuore e nell'obbedienza della vita. È la lezione che abbiamo raccolto anche dalla pagina del profeta Isaia, che ci è stata proposta come prima lettura: Io sono il Signore e non c'è alcun altro. Gli uomini che pretendono di diventare nostri padroni o nostri maestri di vita contro o anche solo al di fuori dell'unico vero Signore, sono un'insidia e un ostacolo al primato, nella nostra esistenza, del Dio vivo e vero, il solo che merita la nostra adorazione e l'adesione di tutto il nostro essere; e sono un'insidia e un ostacolo anche all'affermazione della nostra libertà di persone e alla nostra inalienabile dignità. Perché proprio inginocchiandosi davanti all'unico Dio e donandosi all'unico Signore Gesù Cristo, l'uomo, di fronte a ogni autorità terrena, si mantiene libero e può liberamente usare di tutti i beni del mondo. Come ha detto san Paolo: Tutte le cose sono vostre, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio. Lo Spirito Santo, luce vera delle coscienze, ci conceda di capire questa essenziale verità, in mezzo alle mille menzogne che ogni giorno ci vengono da ogni parte proposte.

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    OMELIA XXVIII DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 22,1-14) di Giacomo Biffi
    Questa è tra le parabole del Signore più ricche di senso e più cariche di fondamentali verità. In essa troviamo raffigurato il disegno originario del Padre, il mistero della nostra vocazione, l'enigma del rifiuto umano che si oppone all'iniziativa di Dio, l'amore del Creatore che è al tempo stesso generoso ed esigente.

    LO SPOSALIZIO TRA DIO E L'UMANITA', TRA CRISTO E LA CHIESA
    Il Regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio: abbiamo qui non solo l'inizio pittoresco di una parabola, ma anche la rivelazione del segreto primordiale che presiede alla creazione del mondo. Decidendo di dare origine agli uomini e alle cose, Dio dal principio ha voluto che al centro dell'universo ci fosse un'unione vitale, un legame indissolubile, uno "sposalizio" tra la Divinità con tutta la sua infinita ricchezza e l'umanità con tutta la sua povertà: tutto è stato fatto in vista dell'Incarnazione, per la sua manifestazione e per il suo compimento, che è la Chiesa, anch'essa un mistero di donazione sponsale. Dio ha voluto che il senso e lo scopo di tutto fosse una festa d'amore che coinvolge il cielo e la terra.

    CIASCUNO DI NOI E' CHIAMATO A PARTECIPARE ALLA FESTA ETERNA
    A questa festa di nozze siamo tutti invitati. Siamo invitati per il fatto stesso che esistiamo; anzi nel nostro essere "uomo" o nel nostro essere "donna" portiamo il segno, la profezia, il dono della nostra chiamata. La nostra chiamata all'esistenza è anche chiamata a partecipare alla festa eterna che si celebra in onore del Figlio del Re che si sposa, è anche chiamata a entrare nella sala del banchetto dove Cristo e la Chiesa si legano irrevocabilmente, è anche chiamata a farci annunciatori a tutti di questa gioia cosmica che deve comunicarsi a ogni creatura.
    Siamo invitati; cioè, siamo stati voluti, siamo stati desiderati. Questa è la radice più profonda della felicità che sempre, sotto ogni disagio e ogni dolore, vive in un cuore cristiano.
    La tristezza e alla fine la disperazione arrivano dove ci si sente trascurati. "Nessuno mi vuole bene": chi perviene all'amarezza di questa persuasione, è vicino alla catastrofe esistenziale. Ma per noi non è mai così: noi sappiamo che un Dio è venuto a prenderci nel nostro niente, ci ha interpellati, ci ha voluti suoi interlocutori e suoi amici. Perciò, mentre per il non cristiano l'esistenza appare spesso un interrogativo enigmatico e senza risposta, per il cristiano l'esistenza è prima di ogni altra cosa essa stessa risposta a una voce che dall'eternità ha pronunciato il nostro nome; è essenzialmente risposta all'appello, che ci è giunto, di entrare nella grande festa di Dio.

    L'ENIGMATICO E SCONCERTANTE RIFIUTO DELL'UOMO DI FRONTE AD UN DESTINO DI GIOIA
    Ma il racconto che abbiamo letto contiene una sorpresa. Onorati dall'invito del re, i primi chiamati rispondono con un rifiuto. Sembra incredibile, eppure questo è ciò che avviene nella vicenda umana, questo è ciò che può avvenire anche nella nostra storia personale. Noi abbiamo tutti la spaventosa prerogativa di dire di no al Dio che ci chiama. "L'amore non è amato": è la sconcertante realtà che faceva tremare di stupore e di santa passione il cuore dei santi.
    Non se ne curarono, dice la parabola: di fronte a un atto di predilezione, il gelo dell'indifferenza. Questa trascuratezza nei confronti del Dio che ci vuole, in forma e in misura diversa può arrivare a imbruttire anche la nostra vita: da essa dobbiamo sempre umilmente pregare perché la grazia di Dio ci preservi.
    Rifiutare l'invito del Re è sempre molto pericoloso: qualche volta può portare molto avanti sulla strada del male. Il racconto ci precisa che alcuni di quegli uomini, sprezzanti della benevolenza di cui erano stati fatti oggetto, arrivano fino al delitto: Presero i servi, li insultarono e li uccisero.
    Perché in ogni epoca la Chiesa, nell'una o nell'altra parte del mondo, è perseguitata e impreziosita di martiri? Che male facevano i vescovi e i sacerdoti, che sono stati messi in prigione e molte volte fatti morire, anche in questo nostro secolo? Non facevano nessun male; ma poiché annunciavano con chiarezza l'invito del Re, diventavano insopportabili a chi aveva già deciso in cuor suo di dire di no alla salvezza.

    DIRE DI SI' ALL'INVITO DI DIO NON SIGNIFICA RIMANERE COME PRIMA
    Ma c'è, nella narrazione di Gesù, una seconda sorpresa. Lo stesso re, che appare così largo e accogliente da spalancare le porte del suo palazzo a tutti, "buoni e cattivi", non può tollerare che gli si manchi di rispetto e si arrivi alla festa di nozze senza il vestito adatto, cioè senza il vestito più bello di cui in pratica ciascuno può disporre. Non tutti possono presentarsi in abiti costosi e ricercati, ma tutti possono darsi da fare per presentarsi nel migliore dei modi.
    Con questa finale della storia, che per la verità arriva un po' inaspettata, Gesù ci ricorda che il Dio che ci vuole bene e ci sceglie non è però un Dio che si lascia prendere in giro. Entrare in rapporto con lui non è qualcosa di ansioso e terrorizzante, ma in ogni caso è un impegno serio, che va seriamente affrontato.
    In fondo qui ci viene richiamato un insegnamento che nella Chiesa è sempre stato tradizionale, anche se ai nostri giorni l'abbiamo dimenticato un po' e non lo si sente più proporre: e cioè che due sono le ali necessarie per volare incontro al Signore e raggiungere il destino di gioia cui siamo stati chiamati: il timore e l'amore, il timore di Dio che è l'inizio della sapienza e l'amore per il Padre celeste, che è il vertice e la somma di tutto ciò che dobbiamo fare per comportarci come è doveroso e giusto in questo mondo.

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    OMELIA XXVII DOM. T. ORD. - ANNO A (Mt 21,33-43) di Giacomo Biffi

    Gesù espone la parabola dei perfidi vignaioli negli ultimi giorni della sua vita terrena. Proprio questo discorso provoca la decisione dei suoi nemici di mettere fine alla sua scomoda predicazione e affretta la tragedia del Venerdì Santo. L'evangelista, dopo aver riferito il racconto, annota: I sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro e cercavano di catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta. Penserà di lì a poco il tradimento di Giuda a togliere le difficoltà e a consentire un arresto indisturbato, nel silenzio appartato del giardino del Getsemani, in un'ora in cui Gesù è senza difesa. Questa parabola elaborata con molta ricchezza di particolari nella sua costruzione letteraria è la più inverosimile del Vangelo. Ma nel significato che racchiude e nella vicenda che evoca è quella che con più precisione di ogni altra delinea secondo verità la storia della salvezza.
    È inverosimile che il padrone, dopo aver conosciuto per ripetuta esperienza che quei contadini ladri e prepotenti non arretrano neppure di fronte all'omicidio, rischi il suo figlio prediletto (cf. Mc 12,6) e lo mandi da loro solo e senza alcuna protezione. Ed è inverosimile anche il ragionamento di quei malfattori che dicono: Costui è l'erede; uccidiamolo, e avremo noi l'eredità (Mt 21,38). In quale codice è mai stato scritto che l'eredità possa passare agli uccisori dell'erede? Ma ciò che è senza alcuna plausibilità negli elementi del racconto, si è avverato alla lettera nella storia dei rapporti tra Dio e il popolo d'Israele.Israele è come una vigna che ha avuto le cure più attente e premurose da parte del Creatore del mondo. Ma è un amore che non ha ricevuto una corrispondenza adeguata. Il Signore invia ripetutamente dei profeti al suo popolo, perché si ravveda. Ma restano sempre inascoltati, e anzi molti di loro fanno una brutta fine. Allora, come dice san Paolo, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli (Gal 4,4). Noi però sappiamo come sono andate le cose: Presolo, lo cacciarono fuori della vigna (fuori della sua eredità) e l'uccisero (Mt 21,39). Il Signore Gesù viene infatti arrestato e crocifisso fuori della porta di Gerusalemme, che era la sua città, la santa città di Davide. Ma proprio in virtù di quell'immolazione e di quel sangue sparso, la redenzione, la liberazione dal peccato e dalla morte, il rinnovamento totale degli uomini e delle cose, raggiungerà tutti e assicurerà a tutti la possibilità di salvezza. Anche dall'odio e dalla ribellione Dio ha ricavato la vittoria dell'amore.
    Siamo posti di fronte a un grande mistero; anzi a due. C'è il mistero inaudito e sorprendente di un Dio che, non avendo nessun bisogno di noi, cerca l'affetto del nostro cuore e vuol portarci alla comunione con la sua stessa gioia. E c'è l'enigma indecifrabile dell'uomo che avendo bisogno di tutto e non sapendo da solo proteggersi dalla tirannia del male e dai colpi della sventura si ostina a eludere il Dio che lo insegue, si rinchiude e si rende impenetrabile alla luce dall'alto, pare che voglia difendere la sua miseria dalla generosità di colui che può e vuole dargli la felicità vera e la vita senza fine. Qui c'è in sintesi tutto il dramma dell'umanità, tutto il nostro dramma. Il Signore ci conceda di arrenderci finalmente al suo amore, perché il suo sacrificio non vada per noi perduto.

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    OMELIA XXVI DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 21,28-32) di Giacomo Biffi

    Ogni impegno cristiano, ogni donazione a favore dei fratelli, ogni vigore di carità, si alimenta alla frequentazione continuata della scuola di Cristo. Abbiamo sempre bisogno di queste "lezioni" dell'unico vero Maestro, se non vogliamo ridurre il nostro servizio ecclesiale a un attivismo senz'anima e senza motivazioni. La lezione che ci viene impartita oggi, dalla pagina di Vangelo che abbiamo ascoltato, potrebbe avere per titolo: "I fatti e le parole". Fatti e parole visti nella loro differenza, nella loro eventuale contrapposizione, nel loro pregio diverso. E si compone di una breve parabola e di una provocante, quasi scandalosa, affermazione del Signore.
    LA NOSTRA PROFESSIONE DI FEDE SI SOSTANZIA DI OPERE
    La parabola tende a mettere in luce che di fronte a Dio, più che le dichiarazioni, le etichette, le sigle di appartenenza, le ostentate declamazioni di fedeltà, conta l'effettiva accettazione della volontà del Padre. Sia fatta la tua volontà, è la più necessaria, la più sublime, la più ardua delle preghiere. Il valore reale che ciascuno di noi possiede in faccia a Dio, più che dalle espressioni della bocca, è determinato dalla risposta della vita. In un altro punto del Vangelo, Gesù manifesta lo stesso pensiero quando dice: Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio. Senza dubbio, fa parte della volontà del Padre che noi lo lodiamo con le nostre labbra, lo imploriamo col nostro cuore, lo riconosciamo con la nostra voce davanti al mondo. Perciò ogni contrapposizione tra la liturgia, l'orazione, la testimonianza, e l'attività di bene, la realizzazione di opere a vantaggio degli altri, la solidarietà concreta coi bisognosi, è fittizia, non evangelica, improponibile. Il Padre vuole tutto: vuole la nostra mente, il nostro cuore, le nostre labbra, le nostre parole, le nostre mani, i nostri fatti. Tutto, senza indebite esclusioni, deve essere posto al servizio del Regno. C'è un'altra annotazione, simile a questa, che va segnata a scanso di equivoci. Nella parabola non è la ribellione esteriore che viene lodata, ma la sottomissione effettiva. Il primo figlio non viene disapprovato perché ha detto di sì, ma perché ha fatto di no; e il secondo non viene esaltato perché ha detto di no, ma perché ha fatto di sì. L'ideale resta colui che dice di sì e fa di sì; che non ha paura di professare apertamente la sua fede nel Signore Gesù e la sua volontà di essere pienamente partecipe della vita della Chiesa con umiltà e con gioia, e insieme si sforza ogni giorno di tradurre nella sua esistenza le esigenze di comportamento coerente che sono incluse nelle sue convinzioni. Questa parabola non è dunque un'apologia dei ribelli, sia pure verbali, e un plauso rivolto ai virtuosi del "no", ma è un invito a una professione cristiana sostanziata di opere. Il modello supremo resta sempre il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che, come dice san Paolo, non fu "sì" e "no", ma in lui c'è stato il "sì" (2 Cor 1,19). Egli è stato in ogni sua parola, in ogni suo sentimento, in ogni sua azione, in ogni ora della sua vita, fino all'ora suprema del sacrificio della croce, il "sì" totale rivolto al Padre, dal quale tutti noi siamo stati salvati: Per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti (Rm 5,19).
    CHI SI RITIENE ARRIVATO NON E' MAI DISPOSTO A CAMBIARE
    La frase, con cui la parabola si conclude, doveva apparire agli ascoltatori abbastanza sconcertante. Gesù dice ai "giusti" del suo popolo, a coloro che si ritenevano perfettamente a posto perché osservavano tutte le prescrizioni della legge e tutti i riti della tradizione ebraica: I ladri e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio. Questa espressione, se è innaturalmente staccata dal contesto, può dar origine a qualche spiacevole malinteso. Se invece è capita nell'ambito di tutto il discorso, rivela con molta chiarezza il pensiero del Signore. Non si tratta dei ladri e delle prostitute nel tranquillo e soddisfatto esercizio della loro professione, ma nel momento in cui "credono", cioè aderiscono, alla pro- posta di pentirsi e di cambiare vita; nel momento della loro accettazione della "via della giustizia" annunciata da Giovanni. Giovanni il Battezzatore aveva detto: Convertitevi perché è vicino il Regno dei cieli. Vale a dire: trovate nel futuro, che è ormai imminente, la forza di mettere in crisi il vostro passato, di rompere coi vostri errori, di mutare la vostra condotta. Meglio dunque una prostituta che, per l'attesa del Regno di Dio che viene, trova il coraggio di trasformare la sua squallida vita, che una signora per bene, la quale, per andare incontro con interiore sicurezza al giudizio di Dio, continua a richiamare alla mente tutta la sua vita virtuosa e onorata. Il cristiano si salva non perché si appoggia alla sua giustizia passata ("non ho mai fatto male a nessuno"; "ho sempre fatto del bene a tutti", ecc.), ma perché confida nella giustizia veniente di Dio. Non nel nostro passato, ma nel futuro del Dio che verrà a sigillare e a dare un senso alla storia, e già fin d'ora domanda il cambiamento del nostro presente, sta la ragione della nostra salvezza e il fondamento della nostra speranza.

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    OMELIA XXV DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 20,1-16) di Giacomo Biffi
    Nelle parabole del Signore bisogna distinguere accuratamente il racconto (pittoresco, colorito, qualche volta paradossale) dalla dottrina. Ciò che è proposto alla nostra fede non è l'episodio, ma solo l'insegnamento centrale che è significato dall'episodio. Ne consegue che i particolari di una parabola raramente sono da considerarsi elementi di verità o norme di comportamento. Essi spesso sono soltanto abbellimenti della narrazione. Ad esempio: se è detto che il giorno della fine e del giudizio è simile a un furto con scasso perpetrato di notte, non se ne può dedurre che Gesù sia un ladro armato di grimaldelli, ma solo che verrà all'improvviso, perché solo questo è ciò che direttamente si vuol insegnare. Perciò spesso le parabole di Cristo possono essere anche largamente inverosimili. Questo vale anche per la pagina evangelica di oggi. Essa descrive molto bene una scena tipica delle antiche società agricole e padronali: i braccianti in piazza del paese che aspettano chi li assoldi a giornata per i lavori della mietitura o della vendemmia. Ma non è molto plausibile che il padrone venga a prendere operai anche nell'imminenza del tramonto e quindi quasi al termine della giornata lavorativa; né che voglia pagare i lavoratori violando spudoratamente le norme della giustizia distributiva. È un padrone strano, capriccioso, poco probabile e - per dirla con chiarezza - francamente antipatico. E guai se a qualcuno venisse in mente di usare questa parabola per stabilire quale sia la dottrina sociale della Chiesa. In realtà, in questa pagina Gesù non intende dirci nulla dei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori; egli vuole dirci invece alcune cose importanti sui rapporti tra l'uomo e Dio, tra noi e il nostro destino.
    DIO CI RICOMPENSA IN PROPORZIONE ALLA SUA BONTA', NON AI NOSTRI MERITI
    La prima cosa è che, per fortuna, quando si tratta della salvezza e del merito, Dio non guarda la sua giustizia (ché staremmo freschi tutti) ma la sua bontà, per la quale egli sa ricompensare non in proporzione a quello che noi abbiamo fatto, ma a quanto egli è capace di amarci. Io sono buono, dice il proprietario della parabola, che adduce proprio questa bontà come spiegazione del suo strano comportamento. E questo è assolutamente vero per il nostro Creatore e Signore. «Non ho paura di morire, perché abbiamo un padrone buono», diceva.
    LE VIE SALVIFICHE DI DIO SONO IMPREVEDIBILI
    La seconda cosa è che le forme con le quali Dio riesce a dare a tutti il "denaro" della vita eterna, sono imprevedibili, sicché c'è sempre speranza. Certo noi siamo impazienti e vorremmo vedere tutto subito: una madre vorrebbe vedere subito il figlio sulla strada del bene; un educatore vorrebbe vedere subito il risultato della sua opera; un apostolo vorrebbe vedere subito l'efficacia della sua parola. Ma le strade di Dio sono piene di giravolte; la sua azione è piena di indugi per noi esasperanti; i suoi momenti sono fissati, a suo piacimento, lungo tutto l'arco della giornata dell'uomo e della storia: Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
    IN QUALUNQUE MOMENTO AVVENGA LA CHIAMATA, LA RISPOSTA DEVE ESSERE IMMEDIATA
    La terza cosa è ancora più importante: se Dio può indugiare, lui che prevede i tempi futuri, non possiamo indugiare noi, che vediamo solo il presente. Se il padrone può chiamare tardi, il bracciante deve accorrere appena è chiamato. Tutti i lavoratori della parabola ricevono il denaro della vita eterna, perché tutti hanno risposto subito, quando il Signore li ha cercati. Nella vita dello spirito non si può dire: dopo, quando sarò più vecchio, l'anno venturo, il mese prossimo, domani. Bisogna sempre dire: adesso. Quando la voce di Dio invita a una perfezione più grande, il sì della nostra risposta deve essere immediato. Non bisogna lasciar passare il momento di grazia: Cercate il Signore mentre si fa trovare; invocatelo, mentre è vicino. Vorrei aggiungere un'ultima osservazione (che conviene particolarmente alla tematica di questo convegno). Curiosamente, questa pagina di vangelo è l'unica dove siano citate praticamente tutte le parti della preghiera del giorno: Lodi (all'alba), Terza, Sesta, Nona, Vespero. A ognuna di queste ore il Signore viene con la sua grazia, viene nella Chiesa a cercare i suoi adoratori, viene con una chiamata più decisiva, viene con un dono specifico. Ogni volta che noi recitiamo una parte di questa splendida preghiera ecclesiale, rinnoviamo l'incontro con il Padrone della vigna, rendiamo più chiara e più certa la nostra vocazione di figli di Dio, cresciamo nella conformità al volere del Padre. Così, giorno dopo giorno, se saremo assidui e attenti alla Diurna Laus entreremo sempre più nella divina intimità e la nostra esistenza diventerà sempre più feconda.

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    OMELIA XXIV DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 18,21-35) di Giacomo Biffi
    Questa volta l'argomento trattato dalla pagina evangelica è senza possibilità di dubbio il perdono delle offese ricevute. E se la scorsa domenica le raccomandazioni di Gesù avevano come destinatari i capi della comunità, oggi si rivolgono certissimamente a tutti e singoli i suoi discepoli, cioè si rivolgono a tutti noi. Faremo oggetto della nostra attenzione successivamente: la risposta data a Pietro, il racconto della parabola, il suo significato profondo nella nostra vita.
    LA NECESSITA' DI PERDONARE SENZA MISURA
    Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?
    Questo interrogativo suppone che l'argomento del perdono sia già stato ripetutamente trattato dal Maestro. Pietro conosce già il pensiero di Cristo in questa materia, sa già che bisogna perdonare; e, quasi per mostrare di avere imparato bene la lezione, propone lui una misura che, a suo avviso, nella sua esagerazione esprime bene la dottrina cristiana, davvero rivoluzionaria, della misericordia: Sette volte. Sette è per gli ebrei il numero della perfezione; Pietro dunque vuol far sapere che non è uno scolaro ottuso o distratto: sa che bisogna perdonare perfettamente, senza riserve, senza esitazioni. Ma la risposta di Gesù riesce a oltrepassare e a dimostrare insufficiente anche ciò che sembra il massimo: Settanta volte sette. Il che significa: la misericordia verso chi sbaglia e si fa ingiusto verso di noi, va esercitata oltre ogni misura umanamente pensabile, oltre ogni tentazione di tenere il conto. Anzi, dal momento che Gesù non ricorda qui nessuna condizione particolare (come il pentimento o la domanda di scusa), il perdono appare come una norma assoluta, che va applicata verso tutti, in ogni caso, in ogni circostanza. Questo insegnamento di Cristo francamente ci sgomenta, tanto è remoto dal nostro modo di pensare e soprattutto dal nostro modo di vivere. È così raro un perdono seriamente concesso, un perdono che non si rivesti di sottigliezze verbali sempre un po' farisaiche ("perdono ma non dimentico"), un perdono che consenta la rinascita effettiva nel nostro cuore dell'amore verso il fratello colpevole; è così raro, che ancora una volta siamo costretti a riconoscere la lontananza della nostra vita dall'ideale cristiano. Sicché la meditazione non può che risolversi in preghiera perché ci sia dato come regalo di Dio quanto è così contrastante con la nostra natura.
    IL DOVERE DI PERDONARE DERIVA DAL NOSTRO CONTINUO BISOGNO DI FARCI PERDONARE DA DIO
    Il Signore però vuole aiutarci a capire; e, mentre si rifiuta di stabilire una misura massima al dovere di perdonare, non si rifiuta di spiegare con la concretezza di una parabola quale sia il fondamento e la ragione ultima di questa sua legge difficile. La parabola di oggi - come spesso accade ai racconti di Cristo - è vivace nella descrizione e chiara nel concetto che vuol esprimere, anche se largamente inverosimile nel suo significato letterale. Un re ha un servo che gli deve diecimila talenti: una somma enorme, più che una ventina di miliardi delle nostre lire. E mentre all'inizio senza tanti complimenti lo vuol vendere schiavo con la moglie e i figli per risarcirsi in qualche modo, alla fine gli condona il debito, addirittura senza richiedere nessun impegno e nessuna garanzia per il futuro. Sennonché il debitore graziato vanta a sua volta un credito da un suo compagno di servizio: un credito irrisorio (qualche decina di migliaia di lire), ma che gli basta - contro tutte le plausibilità - per farlo gettare in carcere. In tal modo, conclude Gesù, per la crudeltà verso il collega questo servo perde il favore e il condono del re. Così noi veniamo a sapere che la necessità di perdonare i debiti degli altri deriva dalla più grande e più radicale necessità che tutti abbiamo di farci perdonare i nostri debiti verso Dio. E per il Signore questo ragionamento è così decisivo, che ci ha costretto a esprimerlo quotidianamente nella preghiera: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
    LA NOSTRA PERPETUA CONDIZIONE DI FALLIMENTO NEI CONFRONTI DI DIO
    Questa parabola getta anche una luce nuova sul nostro essere più intimo e più vero. Il nostro primo rapporto con Dio è quello di servo a padrone, anche se noi cerchiamo di non ricordarlo. Certo l'amore incredibile di Dio ha sovrapposto a questo il rapporto di figlio a padre, ma senza che il primo e fondamentale rapporto abbia perso niente della sua verità. Siamo servi, e siamo servi che devono tutto al loro Signore: l'esistenza, la vita, la luce, la possibilità di sperare, la capacità di resistere al male, l'audacia di amarlo. Ciascuno di noi è, per così dire, un debito vivente nei confronti di Dio; e ogni giorno del nostro tempo, sempre carico di imperfezioni, ogni atto della nostra condotta, che non corrisponde mai del tutto a quello che si dovrebbe fare, non fa che crescere le dimensioni del nostro dissesto. Ma per fortuna, se grande è il debito, più grande è la misericordia del Creatore per noi; e noi la richiamiamo ogni volta che ci raduniamo in preghiera. Coltivare quotidianamente questi pensieri ci aiuterà a essere più intelligenti e più umili nella nostra vita religiosa e ci incoraggerà nell'arte difficile della pietà verso gli altri, i quali sono sempre vicini, legati, accomunati a noi tanto nel servizio di Dio quanto nella nostra perpetua situazione di fallimento nei confronti del nostro grande e generoso Signore.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7513

    OMELIA XXIII DOM. T.O. - ANNO A (MT 18,15-20) di Giacomo Biffi
    Chi sono i destinatari delle raccomandazioni di Gesù raccolte nel brano che è stato letto, e qual è lo scopo vero di questo insegnamento?
    Molti hanno pensato di trovare espressa in questo testo la norma della così detta "correzione fraterna" e una direttiva circa il modo con cui va esercitato il perdono. Vale a dire: molti hanno visto in queste frasi la regola di comportamento che il singolo discepolo di Cristo deve seguire nel caso che un suo fratello abbia peccato contro di lui e lo abbia offeso.
    Ma, letta così, questa pagina non sembra concordare con quello che Gesù ha detto in altre occasioni e con l'insieme dell'insegnamento evangelico. Da tutto il Vangelo infatti noi impariamo che il cristiano di fronte a un'offesa subita non deve imbastire troppi processi: deve solo perdonare, perdonare subito (se ci riesce), perdonare (come Gesù una volta ha risposto a Pietro) settanta volte sette, cioè sempre, perdonare senza chiasso ma con discrezione, perdonare, se è possibile, senza informare o coinvolgere altre persone.
    Che pare esattamente il contrario di quanto è detto nel Vangelo di oggi.
    L'enigma si scioglie facilmente appena si viene a sapere che l'esortazione non è indirizzata ai semplici fedeli, ma ai capi della comunità cristiana. Gesù non intende qui rispondere alla domanda: "Come mi devo comportare di fronte al mio fratello che mi offende?" (domanda alla quale ha già risposto altrove); ma a quest'altra: "Come si devono comportare i capi della comunità di fronte a una colpa pubblica, clamorosa, che turba e scandalizza la Chiesa?".
    Per questo caso, il Signore traccia con molta chiarezza la linea da seguire: prima l'ammonimento privato (Ammoniscilo fra te e lui solo) perché non si condanna nessuno senza averlo prima ascoltato; poi un ammonimento che resti ancora protetto dal riserbo, ma al tempo stesso possa essere garantito da testimonianze (Prendi con te una o due persone) per prevenire l'astuzia troppo facile di una divulgazione tendenziosa dell'intervento; infine, se questi due atti non portano a un buon risultato, la riprovazione davanti a tutta la Chiesa (Dillo all'assemblea), perché la Chiesa da un lato possa pregare ed esortare perché il prevaricatore si penta e dall'altro sia garantita nel suo diritto di sapere dove sta la verità e dove sta la giustizia. Dopo di che non resta che la scomunica (Sia per te come un pagano o un pubblicano: cioè come uno che non appartiene più alla Chiesa). Dove si vede che la scomunica non è un'invenzione degli ecclesiastici del Medioevo, ma è una precisa direttiva lasciataci dal Signore.
    E quasi per dare vigore a questo insegnamento, Gesù estende a tutti gli apostoli (cioè a tutti i capi della Chiesa) la straordinaria prerogativa che poco prima aveva attribuito a Pietro: Tutto quello che legherete sopra la terra, sarà legato anche in cielo, e tutto quello che scioglierete sopra la terra, sarà sciolto anche in cielo. Il che significa: le decisioni ecclesiali che sono prese in conformità alle disposizioni e allo spirito di queste parole di Cristo, hanno valore al cospetto di Dio.
    Queste precise direttive del Signore Gesù sulla vita della sua Chiesa (oltre a suscitare in noi ammirazione per le capacità organizzative e il senso concreto della realtà umana che rivelano) ci suggeriscono alcune considerazioni.
    IL DOVERE DI REAGIRE DI FRONTE AL MALE PER IL BENE DEL SINGOLO E DELLA COMUNITA'
    1. Gesù prende molto sul serio il peccato, soprattutto il peccato che, col pretesto della schiettezza e della autenticità e con la scusa di superare l'ipocrisia, non ha neppure il pudore di nascondersi, e così si pone come fonte di cattivo esempio e di turbamento per la comunità.
    Di fronte al male, Gesù non vuole che la sua comunità abbia come regola di comportamento il lasciar correre: di fronte al male bisogna reagire.
    Noi viviamo in una società che si autodefinisce "permissiva": garbata parola, che non significa niente di bello; parola innocente, che in realtà nasconde una tragedia: lo smarrimento di ogni ideale e, nello smarrimento di ogni ideale, l'incapacità a distinguere tra il giusto e l'ingiusto, tra il bene e il male, tra il vero e il falso.
    Avere un ideale è faticoso, perché ogni ideale di vita è esigente. Ma non avere un ideale significa privare l'esistenza di ogni bellezza e di ogni ragione, e condannarsi infine alla vuotezza e all'angoscia.
    Dobbiamo chiedere al Signore il coraggio e la forza di cercare ogni giorno la regola della nostra condotta non in quello che dicono e pensano tutti, ma in quello che Dio pensa di noi e ci ha detto; non in quello che fanno tutti, ma in quello che si deve fare secondo le esigenze della verità e della giustizia.
    2. Certo bisogna saper distinguere tra l'errore e l'errante: l'errore va condannato senza mezzi termini, la persona che sbaglia va compresa, rispettata, amata. Purché non si facciano confusioni, e a forza di capire l'errante non si finisca col perdere il senso della differenza tra il vero e il falso, tra la giustizia e il crimine, e si arrivi a pensare che nella Chiesa tutte le opinioni possano essere ugualmente sostenute. Questo, come si è visto, non è l'insegnamento di Cristo; questa non è neppure la libertà cristiana. Molto limpidamente, Gesù ci ha detto (e noi non dobbiamo mai dimenticarlo): La verità vi farà liberi.
    3. Anzi il Signore ci dice che in certi casi particolarmente gravi - dove le ripetute ammonizioni non servono - chi presiede alla comunità cristiana ha il dovere di segnalare a tutta la Chiesa anche la persona di chi, ostinandosi nell'errore e nella colpa, si è già da solo escluso dalla comunione dei suoi fratelli. E questo perché l'errante sia aiutato a salvarsi e la fede dei piccoli e degli umili non sia messa in pericolo.
    Il Signore ci doni la grazia di non arrenderci mai di fronte al male che insidia ogni giorno la nostra esistenza, e di saper lottare senza stanchezze, perché anche la lotta contro il male è un modo, necessario e irrinunciabile, di manifestare l'amore verso Dio, che è bene sostanziale, e l'amore verso i nostri fratelli.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7504

    OMELIA XXII DOM. TEMPO ORD. - ANNO A (MT 16,21-27) di Giacomo Biffi
    Il brano che abbiamo ascoltato, nella narrazione evangelica segue immediatamente quello della scorsa domenica. Si tratta anzi dello stesso episodio, avvenuto a Cesarea di Filippo, e ha gli stessi interlocutori: Gesù e Pietro, e sullo sfondo gli apostoli. C'è anche qui una frase rivolta da Cristo a Pietro; ma quanto diversa da quella su cui abbiamo meditato otto giorni fa!
    Beato!, aveva detto Gesù poco prima. Adesso gli dice: Satana! Neppure ai farisei i tradizionali e più fustigati oppositori del Signore era mai stata riservata una parola così severa e così amara.
    Gli aveva detto: "Tu sei la pietra su cui costruirò la mia Chiesa". Adesso gli dice: "Tu sei per me uno scandalo", cioè una pietra di inciampo, un ostacolo posto sul mio cammino.
    Gli aveva detto: Né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. Adesso gli dice: Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. E cioè: tu, che poco fa' hai avuto una folgorazione divina, un dono dall'alto, una illuminazione che ti ha consentito di penetrare nel mistero della mia persona e ti ha fato partecipare alla conoscenza viva e salvifica del Figlio di Dio fatto uomo, adesso sei ripiombato nella nebbia dei ragionamenti umani, ai quali la logica
    divina resta sempre lontana e straniera, sei ritornato spiritualmente ottuso, come sono di solito gli uomini che si ritengono intelligenti, colti, prudenti, e non riescono ad afferrare e a capire il disegno del Padre.
    Si direbbe che questa frase di rimprovero detta a Pietro sia perfettamente simmetrica e perfettamente contraria a quella di lode rivoltagli poco prima. E non possiamo non ammirare l'assoluta giustizia e la sovrana libertà interiore di Cristo, che dà sempre a ciascuno quello che ciascuno si merita, e non si lascia mai condizionare da niente, neppure dalle amicizie o dai calcoli umani degli appoggi e degli aiuti esteriori.
    PIETRO RAPPRESENTA TUTTI NOI
    Ma non possiamo non domandarci (e con questo interrogativo arriviamo al centro della riflessione di oggi): perché questo cambiamento di tono? Che cosa ha provocato il passaggio brusco e inaspettato dall'approvazione più esplicita e più solenne al biasimo più violento? Che cosa è avvenuto che ha fatto, per così dire, cadere in disgrazia Pietro, proprio nel momento che aveva ricevuto la missione più impegnativa e più onorifica che possa essere affidata a un uomo?
    È avvenuto (ci dice il brano letto oggi) che Pietro forse troppo compreso della sua recente dignità di fondamento della Chiesa e di detentore delle chiavi del Regno aveva cercato di allontanare Gesù dal cammino della croce: Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai.
    E Gesù, che proprio in quel momento aveva dato il primo annunzio, la prima profezia della sua tragica
    morte, si è sentito colpito in ciò che gli era più intimo e suo; si è sentito colpito nel centro segreto della sua personalità di Salvatore, perché la morte in croce per la nostra salvezza era il traguardo di tutta la sua vita terrestre, ed egli era venuto appunto per essere un "redentore crocifisso".
    In un momento di luce, Pietro l'aveva proclamato Messia e Figlio di Dio. Ma era stato solo un momento; subito era ricaduto nella mentalità corrente degli ebrei, per i quali "Messia" doveva significare uno che riesce a vincere sul piano umano, un trionfatore esterno, un realizzatore diretto della giustizia in questo mondo, un conquistatore glorioso.
    Che cosa poteva contare pensava Pietro dentro di sé, con tutta la mentalità mondana una religione che non fosse anche risultato, successo, vittoria garantita in questa vita, o quanto meno non offrisse una speranza ravvicinata, una speranza per questo mondo? Che affidamento poteva dare agli uomini un Vangelo il cui maestro sarebbe finito sul patibolo, come uno sconfitto e un fallito?
    Perciò Pietro protesta: Non ti accadrà mai; e diventa, per così dire, il precursore di quella lettura del messaggio evangelico, che lo vede primariamente, se non esclusivamente, rivolto al conseguimento di una giustizia, di una liberazione, di una prosperità soltanto terrestri. Ma è una concezione che Gesù, come si è visto, chiaramente e sdegnosamente rifiuta.
    O, più semplicemente, Pietro diventa il portavoce di tutti noi, che facciamo una gran fatica ad accettare, anche come prospettiva, come idea, la strada della croce.
    Perciò, nella pagina evangelica letta, Gesù indugia a spiegarla ai suoi discepoli e a noi, e ritornerà molte volte su questo argomento, perché è un insegnamento difficile.
    Difficile, perché a tutti noi ripugna istintivamente pensare che nel piano di Dio non ci sia Pasqua (cioè: non ci sia gioia vera e duratura, non ci sia vita eterna, non ci sia salvezza) se non passando attraverso il venerdì santo; non ci sia vittoria, se non attraverso l'umiliazione e la morte di colui che dovrebbe essere sempre e subito vincitore. Essere i soldati di un generale che prevede e addirittura programma le proprie sconfitte, non piace a nessuno. Non piaceva a Pietro e non piace nemmeno a noi.
    Difficile, soprattutto, perché intuiamo facilmente che se questa è la strada percorsa dal nostro Signore e Maestro, inevitabilmente questa dovrà essere anche la nostra strada. E la cosa ci piace ancora meno.
    E difatti Gesù deduce esplicitamente questa temuta e irritante conclusione, e dal fatto della sua croce ricava la necessità della nostra croce: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
    Rinneghi se stesso: in un tempo in cui dappertutto, perfino nella vita religiosa, si sente parlare solo di impegno a realizzare se stessi, questa frase di Cristo è davvero provocatoria, ed è un invito serio a esaminare quanto si possa ancora dire che siamo almeno nelle intenzioni, nei tentativi, nei desideri profondi del nostro essere veramente discepoli del nostro Maestro, il Signore crocifisso e risorto.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7503

    OMELIA XXI DOM. T.ORD. - ANNO A - (Mt 16,13-20) di Giacomo Biffi
    La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo? Voi chi dite che io sia? Da quando è comparso sulla terra, Gesù è sempre stato per gli uomini un enigma inquietante.
    Chi è Gesù? Nessuno, per quanto faccia lo svagato o l'indifferente, può sfuggire a questo interrogativo lungo tutto l'arco della sua vita.
    Nella pagina evangelica che è stata letta, Gesù stesso provoca la questione, e sembra dirci che un conto è andare ad ascoltare "la gente", cioè le opinioni correnti, e un conto è andare a cercare la risposta dagli apostoli del Signore, cioè della Chiesa.
    Il mondo ci dà come risposta la molteplicità dei pareri e la confusione: "Alcuni... altri... altri". La Chiesa, per bocca di Pietro, ci dà come risposta la verità, che è sempre una sola e resta sempre uguale nei secoli.
    Chi è Gesù? Un genio che ha intuito prima di tutti gli altri le esigenze di giustizia e di amore che sono nel cuore umano, o un pazzo che è arrivato a credersi Figlio di Dio? Un grande maestro di vita, o un rivoluzionario fallito? Un grande defunto da commemorare, ma che non può salvarci perché è morto e non vive più, o addirittura un esaltato che ha chiesto ai suoi discepoli di amarlo più del padre e della madre?
    L'UNICA RISPOSTA VERA E SODDISFACENTE CI VIENE DALLA CHIESA
    Nella Babele di tutte queste ipotesi si stacca, semplice e saziante, la risposta di Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
    Il Cristo, cioè il Messia, colui che gli uomini hanno atteso da sempre; colui che è l'oggetto della nostalgia, magari inconsapevole, di ogni spirito umano che non rinuncia a pensare: colui che è stato mandato a noi da Dio per ricondurci a Dio. Non uno eletto dagli uomini per interpretarne le aspirazioni: mandato da Dio per rivelare l'uomo all'uomo e per guidare l'uomo al destino che è stato pensato per lui.
    Il Figlio del Dio vivente, mandato a noi, dunque, non da una divinità astratta e lontana, gelida e indifferente infinità, ma dal Dio vivo, cioè il Dio che vive e dà vita, il Dio che è il centro e il senso di questo nostro esistere, che ci sembra così spesso vuoto, insensato, assurdo, proprio perché non sappiamo più riferirlo al Dio vivo.
    Il Figlio del Dio vivente, perciò la vita è sua, sua è la stessa vita posseduta dal Creatore dell'universo; perciò è perennemente vivente anche lui, tanto che se la morte lo ha potuto misteriosamente ghermire, non lo ha potuto tenere ed egli è risorto ed oggi è vivo.
    A ben guardare, nella risposta di Pietro è inclusa una professione di fede e una profezia: la fede nella divinità di Gesù, la profezia della sua risurrezione.
    Ma anche la risposta di Gesù è piena di luce e va meditata.
    Gesù dice a Pietro: Beato! Beato non perché hai parlato di Cristo, ma perché hai intuito il mistero di Cristo. Perché non è salvifico parlare di Gesù; è salvifico coglierne il mistero vitale nell'adesione sincera e sconvolgente di tutto il nostro essere.
    Non la carne né il sangue te l'hanno rivelato: nessun mezzo umano porta a questo tipo di conoscenza che salva. Non la sottigliezza dei ragionamenti o l'erudizione delle ricerche storiche o le discussioni accalorate ci possono condurre a questa conoscenza viva e trasformante del Signore Gesù, ma solo il dono del Padre, il dono della fede che il Padre fa a chi non chiude il suo cuore per non lasciarsi salvare.
    SE LA CHIESA E' DI CRISTO, NESSUNA POTENZA UMANA POTRA' DISTRUGGERLA
    Se la Chiesa è di Cristo, nessuna potenza umana potrà distruggerla
    Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. La risposta di Gesù ha qui come una svolta improvvisa, e compare sulle sue labbra per la prima volta la parola "Chiesa". Compare in una frase che già rivela l'amore: la mia Chiesa. Quasi a dire che solo nella sua Chiesa - e non in qualunque raggruppamento religioso - si ha la garanzia di trovare veramente la conoscenza di Cristo, e perciò la salvezza.
    La mia Chiesa: la Chiesa è sua, e nessuno gliela può rubare; la Chiesa è sua, e non può sfuggirgli di mano e perdersi nell'errore; la Chiesa è sua, e nessuno può impunemente insultarla o avvilirla.
    Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa: cioè, la potenza dell'inferno che lavora in questo mondo e insidia ogni forma di bene, non arriverà a dominarla. Per questa promessa la Chiesa è la cosa più forte del mondo; ed è fondata sulla cosa più debole, cioè la fragilità di un uomo; è fondata su Pietro, che vive nel suo successore, il vescovo di Roma; un uomo così debole, che qualunque sicario lo può facilmente colpire, ma che ha sempre con sé la forza di Dio.
    «Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa», ha detto sant'Ambrogio, spiegando con la consueta genialità le parole di Gesù.
    Le parole di Gesù vanno prese sul serio. Chi tenta di edificare al di fuori di questa pietra, non è col Vangelo di Cristo, e la sua casa è una casa costruita sulla sabbia.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7493

    OMELIA XX DOM. TEMPO ORD. - ANNO A - (Mt 15,21-28) di Giacomo Biffi
    Abbiamo ascoltato una pagina di Vangelo sconcertante, ma ricca di luce. Essa ci aiuta ad accostarci al mistero di Dio e della sua condotta verso di noi; ci aiuta, se non a capire fino in fondo, almeno ad accogliere e ad adorare i disegni di un Dio che di fronte alle sventure umane ci appare distratto e indifferente, mentre è sempre vicino, compassionevole, desideroso di farci entrare tutti nel gioco spesso enigmatico del suo amore. È questo un episodio significativo e singolare, nel quale la persona del Signore Gesù si manifesta in tutta la sua originalità e in tutta la sua imprevedibilità. Il comportamento di Cristo ci sorprende, ci stupisce, è lontano da ogni idea di bontà puramente convenzionale. Proprio per questo la narrazione è affascinante e stimola la nostra riflessione.
    DIO CI NEGA UNA GRAZIA PER DARCENE UNA PIU' GRANDE
    Si diresse verso le parti di Tiro e di Sidone: siamo dunque fuori della Palestina. È una delle poche volte che Gesù sconfina dal territorio ebraico e arriva sulla costa fenicia, in un paese straniero. Qui è al riparo dall'odio crescente e dalle insidie dei suoi nemici come anche dalle richieste assillanti dei suoi connazionali; qui per qualche tempo può dedicarsi con tranquillità al compito che si è voluto assegnare come prevalente e primario: l'istruzione e la formazione dei Dodici, di coloro cioè che dovranno essere i capi della sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo. Ma anche qui viene raggiunto e importunato da qualcuno che chiede. Una donna cananea, che veniva da quelle regioni: una straniera, dunque. Ma alla nazionalità la donna non bada. Conosce solo la sua pena di madre; conosce solo la malattia crudele di sua figlia. Le persone che soffrono non sono mai straniere: sono avvicinate e accomunate dal dolore, il quale non conosce confini. Questa donna suscita compassione anche in noi, che ascoltiamo le sue parole a tanta distanza di anni. Ma sembra non riuscire a commuovere Gesù. Egli non le rivolse nemmeno una parola. Questa insensibilità, insolita in colui che tanto spesso abbiamo visto commuoversi sulle sventure umane, meraviglia gli apostoli, i quali - forse anche per togliersi il fastidio di quel lamento interminabilmente ripetuto - si mettono a intercedere per lei: Esaudiscila, vedi come ci grida dietro. Con grande nostra sorpresa, proprio Gesù mostra di ricordarsi di quella condizione di straniera, di cui nella sua pena si era dimenticata la donna; e rifiuta la grazia, adducendo assurdamente a pretesto le esigenze del suo piano di azione: adesso, dice, è il momento degli ebrei, le pecore della casa di Israele; dopo la mia risurrezione si penserà anche agli altri. Questa durezza ci sbigottisce: è una durezza voluta, una durezza addirittura ostentata, evidentemente per provare la fede. Non abbiamo un Signore facile: non abbiamo un Signore che immediatamente si arrende, che subito consente a ogni nostra implorazione. Abbiamo un Signore che vuole soprattutto educarci, che vuole farci crescere di dentro; che proprio per questo ci mette alla prova, e perciò sembra spesso eludere le nostre domande; talvolta sembra addirittura nascondersi, perché la nostra fede si purifichi e si irrobustisca. Ma il nostro sbalordimento non ha ancora toccato la punta più alta. Di fronte alle insistenze della donna, Gesù trova una frase tanto impietosa da essere perfino offensiva: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. È, per così dire, una crudeltà inventata dall'amore; che non è mossa dall'intento di rifiutare, ma da quello di dare di più; che non vuol negare la grazia, ma vuol donare, con la grazia esterna esplicitamente implorata, una più grande e più preziosa purificazione del cuore.
    FIDUCIA, UMILTA' E PERSEVERANZA NELLA PREGHIERA
    La donna non si scoraggia, non si arrende, non cede: sa leggere, oltre le parole aspre e scortesi, la misericordia e la dolcezza del cuore di Gesù. Insiste, ma con un'umiltà che troppo spesso manca alla nostra preghiera: si vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Qui dobbiamo meditare e imparare. Senza che ce ne avvediamo, è facile che il nostro atteggiamento nei confronti di Dio sia guastato da una venatura di arroganza. Abituati come siamo a esigere tutto come un diritto, ci dimentichiamo che di fronte a Dio diritti veri e propri non ce ne sono. Poiché nella convivenza umana abbiamo un po' tutti l'inclinazione a ritenerci vittime di soprusi e di ingiustizie, finisce che siamo tentati di metterci anche di fronte al Signore dell'universo con l'animo di chi ha l'autorità di chiedere un rendiconto: perché mi hai fatto capitare questo? Perché mi mandi questa sofferenza? Perché permetti tante cose ingiuste? È umano, è comprensibile che questo avvenga. Ma se vogliamo che la nostra religione diventi più perfetta e la nostra preghiera più limpida e più gradita, dobbiamo tentare di riprodurre in noi l'atteggiamento di questa madre angosciata, di cui ha parlato la pagina evangelica odierna. La donna cananea sa unire una totale sottomissione all'insistenza di chi conosce in profondità il cuore del Signore e la sua pietà inesauribile. Il suo perseverare nel chiedere non è petulanza, ma è solo il frutto di una grande fede. Una fede che Gesù elogia pubblicamente: Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7492

    OMELIA XIX DOM. TEMPO ORD. - ANNO A (MT 14, 22-33) di Giacomo Biffi
    La pagina evangelica offertaci dalla Chiesa in questa domenica presenta alla nostra attenzione due quadri distinti: nel primo è raffigurata la solitaria, prolungata preghiera di Gesù sul monte; nel secondo vediamo i discepoli che in una fragile barca lottano contro il vento e la tempesta. Due scene molto diverse: una di contemplazione e di pace e una di fatica e di paura, ciascuna col suo dono e col suo insegnamento.
    IRRINUNCIABILE BINOMIO: PREGHIERA E IMPEGNO OPEROSO
    Salì sul monte, solo, a pregare. È una annotazione frequente nella narrazione evangelica, che sottolinea spesso come Gesù ricercava sempre, entro la sua giornata affaccendata, uno spazio per un po' di solitudine orante. La scorsa domenica abbiamo visto come il Signore, prima dell'episodio della moltiplicazione dei pani, si era ritirato in disparte, in un luogo deserto. Adesso, dopo che la folla si fu saziata, si allontana anche dagli apostoli per abbandonarsi da solo a una prolungata preghiera, che va dal tramonto fino verso la fine della notte. È per lui un'abitudine, una necessità si direbbe, di non lasciar passare giorno, per quanto intenso di lavoro a vantaggio degli altri, senza trovare un po' di tempo nel quale intrattenersi in modo totale col Padre. È sufficiente riflettere su questa condotta del Figlio di Dio per cogliere tutta la vuotezza e l'inconsistenza di molte opinioni correnti a proposito della preghiera; opinioni che possono sembrare a prima vista geniali e non conformiste, e sono soltanto il prodotto di spiriti che vivono in superficie e non sanno amare; opinioni dalle quali, poco o tanto, siamo influenzati tutti. Si dice qualche volta: la vera preghiera consiste nel far del bene agli altri, nel faticare con animo retto; basta fare il proprio dovere, esercitare la carità, impegnarsi per la giustizia. Ebbene, a Gesù non bastava. Tutta la sua vita era una laboriosa donazione ai fratelli; eppure egli non riteneva che fosse completa, senza questo colloquio segreto, appassionato, lungo col Padre. Certo, chi passasse tutto il tempo a pregare e poi non facesse il proprio dovere o si dimenticasse di aiutare gli altri, non sarebbe nel giusto e ci sarebbe da dubitare della autenticità della sua stessa orazione. Ma non è nel giusto neppure chi si dimentica di adorare, di ringraziare, di implorare il suo Creatore. Le due cose, come si vede, non solo non si escludono, ma si richiamano necessariamente in un retta esistenza cristiana. Si dice anche: io posso pensare sempre a Dio, anche durante le mie normali occupazioni. Tutta la mia giornata diventa così una preghiera, senza che sia indispensabile dedicare uno spazio esclusivo alle pratiche religiose. Ma l'esempio di Cristo mette in luce la vanità anche di questa seconda opinione. Siamo sinceri: le persone che ci interessano veramente, un po' di tempo per sé ce lo prendono. Se Dio non ci prende neppure dieci minuti al giorno, neppure un'ora alla settimana, vuol dire che non è tra quelli che contano per noi, vuol dire che è posto ai margini della nostra vita, vuol dire che non siamo capaci di un po' d'amore per lui.
    PREGHIERA INDIVIDUALE E PREGHIERA COMUNITARIA
    In questi anni qualcuno ha insegnato che l'unica vera preghiera è quella comunitaria, mentre l'orazione individuale sarebbe un modo intimistico, sentimentale e dunque non autentico di pregare. Abbiamo visto che Gesù non è di questo parere. Egli prega insieme coi suoi apostoli, partecipa ai riti della sinagoga, si associa al culto ufficiale del suo popolo; ma desidera anche pregare appartato, nel silenzio della campagna deserta e delle cime dei monti, con la libertà di espressione che è propria di ogni spirito aperto, ricco, creativo. Così dobbiamo fare noi. La preghiera comunitaria è doverosa e irrinunciabile; se vogliamo che il Padre ci ascolti, dobbiamo imparare a fondere la nostra voce con quella dei nostri fratelli. Soprattutto dobbiamo imparare a partecipare tutti attivamente, consapevolmente e appassionatamente, alla preghiera liturgica, che è la voce della Chiesa (la sposa del Signore, sempre ascoltata e gradita a Dio), addirittura è la stessa voce del Cristo totale, di cui noi siamo il corpo. Ma questa non può essere la sola forma di preghiera. Anzi, essa stessa si trasformerebbe in un ritualismo senz'anima o in una manifestazione di pura fraternità umana, se ciascuno dei partecipanti non avesse anche una sua vita personale di orazione e non avesse il gusto di intrattenersi, nel segreto del suo cuore, in un rapporto suo proprio, unico,geloso, incomunicabile, con il Dio che è il centro e il senso della sua vita.
    QUANDO LA NOSTRA FEDE VIENE MESSA ALLA PROVA
    Passiamo al secondo quadro. Gli apostoli, che si erano imbarcati nel pomeriggio, a un certo momento sono sorpresi da uno di quegli improvvisi colpi di tempesta, che sono abbastanza frequenti sul mare di Tiberiade. E mentre scende la sera e la notte avanza con le sue angosce e i suoi incubi, lottano con tutte le forze contro la violenza delle onde, fino a che cominciano a disperarsi. Verso la fine della notte, Gesù venne verso di loro camminando sul mare. Non arriva subito. Nonostante l'urgenza che i suoi apostoli hanno di essere soccorsi, indugia molto a intervenire. Sono i ritardi di Cristo, gli inspiegabili ritardi di Cristo, che mettono a dura prova la nostra pazienza e la nostra fede. Capitano quei momenti, quando tutto sembra andare a rotoli, tutto sembra perduto, e noi abbiamo l'impressione di essere stati abbandonati. Le nostre invocazioni pare che trovino il cielo sordo o distratto. Il Signore non viene. La notte sembra non passare più e noi sentiamo che stanno per esaurirsi in noi tutte le scorte della speranza. Ma alla fine il Signore arriva. Verso la fine della notte, lui che ha detto: Ecco, io sono con voi ogni giorno, fino alla fine del mondo, si rende presente e ci rianima: Coraggio, sono io, non abbiate paura. C'è anche il comportamento di Pietro, che merita di essere considerato; Pietro, che ancora una volta appare generoso e spavaldo, entusiasta ed esitante, coraggioso fino alla temerarietà e pavido fino allo smarrimento. Il suo impetuoso desiderio di essere vicino a Gesù e di condividere con lui ogni esperienza, gli fa osare un'impresa superiore non solo alle sue forze native, ma anche alla esiguità della sua fede. E Gesù lo lascia fare; non pone limite alle sue aspirazioni, non lo trattiene entro i confini della prudenza. Così lo porta a convincersi della sua debolezza e lo aiuta a fondarsi più sicuramente sulla base dell'umiltà e della fiducia nel Signore. E alla fine lo salva. Ci riconosciamo un po' tutti in Pietro. La nostra vita e la nostra fede conoscono l'alternarsi della sicurezza gioiosa e della inquietudine, della esaltazione inebriante e del terrore che tutto si concluda con un naufragio senza ritorni. Ma non temiamo: la mano di Gesù c'è anche per noi. Anche a ciascuno di noi è rivolto il rimprovero pungente e dolce, che scuote e ridona fiducia: Uomo di poca fede, perché hai dubitato?